Oggi mi immergo nel più piccolo dei rioni di Roma: Sant’Angelo.
Ho scelto di raccontare il rione dell’antico Ghetto ebraico in quattro tappe: un viaggio breve ma densissimo, che svela la stratificazione di epoche, culture e fedi che convivono qui.
❶ Scendo dal tram 8 (capolinea di Piazza Venezia) e la mia prima tappa, su via delle Botteghe oscure, è la Crypta Balbi.
Lo dico subito: questo edificio della Roma antica, oggi adibito a museo, al momento è chiuso per riallestimento, ma una volta riaperto è una tappa che non può mancare. La struttura viene realizzata nel 13 a.C., per volere di Lucio Cornelio Balbo, come parte di un grande complesso teatrale in epoca augustea. Gli scavi hanno rivelato come quest’area sia stata molto “vissuta” nel tempo e si sia molto trasformata nei secoli: da teatro a necropoli, poi officine artigiane, case medievali e strutture rinascimentali. È un edificio che va letto strato su strato: all’interno, salire o scendere non è mai un fatto casuale. Non vedo l’ora di rivederla, quando riaprirà con il nuovo allestimento del Museo Nazionale Romano e il progetto URPS: lì potrò ammirare reperti, vasellame, monete e oggetti di vita quotidiana che raccontano queste trasformazioni.
❷ Lascio la Cripta Balbi e mi incammino verso i vicoli dell’antico Ghetto ebraico, diretto a Piazza Mattei. Ed eccola, la Fontana delle Tartarughe: un piccolo gioiello.
I quattro efebi in bronzo che aiutano le tartarughe a salire creano un’immagine iconica. Mi affascina la leggenda del posto, legata al Duca Mattei: si dice che l’abbia fatta costruire in una sola notte, per conquistare il padre della sua futura sposa, che non lo voleva come genero. Forse è solo folklore, ma rende l’idea dell’orgoglio della famiglia Mattei, che qui aveva il suo palazzo. La fontana è del 1588, opera di Giacomo della Porta, e portava qui l’acqua dell’Acquedotto Vergine. Le tartarughe sono un’aggiunta del 1658-59, forse su disegno del Bernini, ma non è certo. Rimane un simbolo di eleganza, un dono sempre accessibile ai passanti.
❸ Continuo verso il Portico d’Ottavia, un maestoso frammento della Roma pagana.
Siamo sempre in epoca augustea: Augusto lo dedicò a sua sorella Ottavia, ed era un complesso monumentale con templi e biblioteche. All’interno si trovava il tempio di Giunone Regina, trasformato poi nella chiesa di Sant’Angelo in Pescheria. Il nome “Pescheria” non è casuale: per secoli, proprio sotto le antiche rovine, si teneva qui il mercato del pesce di Roma. Penso al vociare dei mercanti tra i resti imperiali. C’è ancora la lapide che stabiliva le regole per i pesci venduti: le teste dei pesci più grandi dovevano essere donate ai Conservatori dell’Urbe, i magistrati della città. Da qui posso già ammirare la cupola del Tempio Maggiore, uno scorcio che lega epoche diverse. Accanto, lo sguardo cade sulla Casa di Lorenzo Manilio del 1468, con le sue iscrizioni in ebraico e in latino: un altro strato di questa stratificazione di memorie e fedi.
❹ Arrivo così alla tappa più importante, sul Lungotevere de’ Cenci. Davanti a me si erge imponente il Tempio Maggiore, la sinagoga principale di Roma.
Inaugurato nel 1904, dopo l’Unità d’Italia e dopo l’abolizione del ghetto nel 1870, rappresenta la rinascita e la libertà ritrovata per la Comunità ebraica romana dopo secoli di segregazione. La sua architettura è particolare: non è lo stile romano classico, è uno stile eclettico che strizza l’occhio al Liberty. La base quadrata massiccia e la cupola a padiglione rivestita in alluminio lo rendono subito riconoscibile nello skyline della città. L’interno è magnifico: ci sono arredi provenienti dalle cinque antiche sinagoghe demolite nel ghetto, e decorazioni Liberty di artisti come Picchiarini e Domenico Bruschi. È il cuore pulsante della comunità ebraica. Oggi ospita anche il Museo Ebraico di Roma, che racconta la storia millenaria degli ebrei nella città. Il Tempio Spagnolo, un’altra sinagoga, completa questo viaggio nella memoria. L’accesso è solo con visita guidata, di solito compresa nel biglietto del museo (circa 12 euro). Il museo è aperto dalla domenica al venerdì mattina, chiuso il sabato e durante le festività ebraiche.
Il mio viaggio a Sant’Angelo finisce proprio qui, davanti al Tempio Maggiore, simbolo di una comunità resiliente e di un quartiere multireligioso. Ogni angolo parla: dalla grandezza romana alla sofferenza del ghetto, testimoniata dalle pietre d’inciampo. Ma Sant’Angelo è anche un luogo pieno di vita: la comunità ebraica è attivissima, le tradizioni si tramandano, e la cucina è forse una quinta tappa, che è necessario aggiungere a questo viaggio. Una sosta nei ristorantini è irrinunciabile. Sant’Angelo è un dialogo continuo tra un passato a volte doloroso che chiede di non essere dimenticato e un presente vivo. Passeggiare qui mi fa riflettere: lascio Sant’Angelo con più domande che risposte, ed è bello così.