Tarquinio il Superbo tiene Roma con il pugno di ferro. Il suo è un tempo scellerato di sopraffazioni e sacrifici umani. Sottomette una ad una le città vicine: a sud Pomezia, a est Gabi, nell’antroterra Ocriculum (Otricoli). E con il ricavato delle razzìe costruisce il grande Tempio di Giove sul Campidoglio e completa l’impianto fognario della Cloaca Maxima.

Il Superbo ha un figlio, Lucio Sesto, che sembra fatto della stessa pasta del padre e pare anche destinato a succedergli sul trono. Lo invia in viaggio persino in Grecia, affinché l’Oracolo di Delfi confermi l’investitura e, con l’occasione, metta anche a tacere qualche sinistro presagio di sventure imminenti.

Pare che l’Oracolo, interprellato su chi sarà il futuro re, abbia risposto: “Avrà il sommo potere a Roma chi per primo bacerà la Madre”. La frase è enigmatica, come si conviene ad un oracolo, e Lucio Sesto la interpreta affrettando il rientro a Roma per baciare per primo sua madre Tullia. Ma Lucio Sesto ha anche dei fratelli, intenzionati a fare lo stesso; e con lui ci sono dei giovani patrizi, tentati di fare altrettanto. Al momento di sbarcare dalla nave sulle coste laziali, scoppia una zuffa. Ha la peggio uno dei giovani, un ragazzone alto con la fama di una certa goffaggine: viene travolto e finisce per cadere con il viso nella terra. Il suo nome è Lucio Giunio, soprannominato appunto Bruto, che in latino significa “goffo”. Bruto è stato il primo a baciare la Madre-terra e, come vedremo, avrà un ruolo nel seguito della vicenda.

Appena sbarcato, intanto, Lucio Sesto si macchia subito di un delitto. Conosce la nobile Lucrezia, moglie del condottiero Lucio Tarquinio Collatino, e se ne invaghisce al punto di farla sua con la violenza e sotto la minaccia delle armi. La nobile Lucrezia, per l’oltragio ricevuto, si toglierà la vita con un pugnale.

È troppo. Collatino, arso dalla rabbia, gli giura vendetta e chiede il sostegno di Bruto.

Bruto, che a muoversi è goffo ma a parlare pare sia un ottimo oratore, si reca al Foro, dove arringa alla cittadinanza romana, raccontando lo scempio compiuto da Lucio Sesto. Bruto sa smuovere gli animi, e unisce sia il popolo che il patriziato nella comune rivolta contro il tiranno etrusco e la sua progenie.

Quando il Superbo rientra in città da una campagna militare, gli fanno trovre le porte sbarrate. Roma non vuole padroni. Mai più re, la monarchia è abolita. È il 509 a.C.

In fretta e furia adesso Roma deve inventarsi un nuovo ordinamento. Al posto della monarchia viene istituita la Res publica. E i Comizi centuriati nominano due magistrati – i consoli –, con il compito di guidarla. Uno dei consoli è il condottiero Collatino. L’altro, esattamente come predetto dall’oracolo, è Lucio Giunio Bruto.

Il Superbo è tutt’altro che rassegnato. Anzi, chiama in soccorso i suoi.

Il primo ad accorrere è Porsenna, lucumone di Clusium (Chiusi). Le sue azioni militari hanno un discreto successo e nel 508 a.C. riesce anche a mettere Roma sotto assedio.

È in questa fase che avviene l’episodio di eroismo di Muzio Scevola.

Muzio incarna i tempi che cambiano: è etrusco per lingua e cultura, ma ha scelto Roma come patria. E ha molto da temere dal ritorno del Superbo, a cominciare dalle terre della sua famiglia – i Prata Mucia nell’attuale Trastevere –, che sarebbero le prime a finire confiscate.

Il suo piano è ingegnoso. Fingendosi etrusco, Muzio si infiltra nell’accampamento di Porsenna e si arruola come soldato. E, giunto il giorno della paga, al cospetto di Porsenna, estrae un pugnale e lo uccide.

Si tratta di un tragico scambio di persona, perché l’uomo che ha appena ucciso non è Porsenna, ma un suo scriba che gli fa da controfigura. Portato al cospetto del vero Porsenna, Muzio gli rivolge parole famose: “Volevo uccidere te, Porsenna. La mia mano ha sbagliato e io la punisco”. E in quel momento Muzio poggia la mano destra su un braciere acceso facendola ardere, senza dimostrare alcun dolore. E aggiunge: “Dopo di me altri 300 giovani romani hanno giurato di fare lo stesso”.

Muzio mente, non c’è nessun altro disposto a emulare quel gesto insensato. Ma Porsenna ci casca: è sopraffatto dalla paura e scioglie l’assedio su Roma, ordinando all’esercito di ritornare a Chiusi.

Prima di partire, Porsenna, trova il tempo per sottoscrivere un onorevole accordo, che va sotto il nome di Trattato del Gianicolo. Ai Romani si assegnano l’area del Gianicolo e le Saline alla foce del Tevere; agli etruschi rimane il resto della riva destra del Tevere.

Una curiosità: Muzio prenderà da allora il soprannome di Scevola, che significa “il mancino”.

Deluso da Porsenna, il Superbo ha ora un nuovo alleato: Ottavio Mamilio re di Tuscolo, alla guida di un esercito di ben trenta città latine ostili a Roma, pronte ad attaccarla da sud.

Da nord anche Veio è pronta ad attaccare, per integrare con con gli eserciti latini una perfetta “manovra a tenaglia”. E alla guida dell’esercito etrusco ricompare proprio lui: Tarquinio il Superbo.

Lo scontro decisivo col Superbo avviene nella Silva Arsia, un bosco lungo l’attuale via Cassia, tre chilometri fuori dalle Mura Aureliane.

La battaglia, a lungo incerta e sanguinosa, vede emergere l’inatteso talento militare del console Publio Valerio Publicola. Pare che sia stato lui a perfezionare la tecnica della “fanteria ordinata in quadrati”: ai Veienti non rimane altro che tornare nella loro capitale a mani vuote.

Lo scontro con l’esercito latino di Mamilio avviene nel 496 a.C., al Lago Regillo.

A Roma in quell’anno non ci sono consoli: al loro posto è stato eletto il dictator Aulo Postumio Albo, un magistrato straordinario con il compito di risollevare la situazione militare.

Sul campo di battaglia, a guidare l’esercito delle città latine, compare, ancora una volta, proprio lui: Tarquinio il Superbo, mai rassegnato.

La battaglia vede la vittoria dei Romani, e questa volta Tarquinio il Superbo viene anche ferito, quasi mortalmente. Morirà poco dopo.

Quello che segue a Roma è un periodo di relativa tranquillità, in cui anche le tensioni interne, tra il patriziato e la plebe, sembrano stemperarsi, attraverso leggi eque e lungimiranti.

Una di queste leggi riguarda il nostro territorio: le Saline alla foce del Tevere vengono nazionalizzate e “la vendita del sale viene ora gestita direttamente dallo Stato Romano, e sottratta quindi all’arbitrio dei privati” (Livio, II, 9). Il sale è un bene troppo prezioso, per lasciarlo alla superbia degli uomini.


(articolo aggiornato il 15 Febbraio 2023)