I contrasti tra Gonfalone e Sancta Sanctorum sono l’immagine plastica del malessere che nel secondo quarto dell’Ottocento agita la Chiesa e la città di Roma. C’è un’anima conservatrice che tende all’immobilità e c’è un’anima inquieta che cerca la modernizzazione. È chiaro a tutti che si ha di fronte un secolo carico di opportunità, tutte da cogliere nel nome del progresso.

“Progresso” è probabilmente la parola del secolo. Ma non per tutti ovviamente. L’interprete principale di questa aspirazione è il nascente ceto della borghesia cittadina. Molti di loro guardano con simpatia alle idee rivoluzionarie del generale Giuseppe Garibaldi (1807-1882); qualcuno accarezza il sogno di un’Italia unita e repubblicana, con capitale a Roma e senza più il Papa-re; qualcun altro abbraccia idee sovversive e aderisce alle sette segrete dei massoni e carbonari, o la radiosa utopia del socialismo.

L’intellettuale Pietro Manzi caldeggia invece un’altra utopia: la strada ferrata. Dal 1837 assilla il governo pontificio con la petulante richiesta di collegare la sua città d’origine, Civitavecchia, con Roma. Il progetto di Manzi è semplicissimo: basta posare binari d’acciaio e traversine in legno accanto a via della Magliana e farci correre vagoni trainati da una locomotiva a carbone. Poi da Pontegalera (oggi Ponte Galeria) si taglia dritto per le piatte pianure dell’Agro Romano e si segue la costa, con capolinea al porto marittimo di Civitavecchia.

Scienziati e intellettuali sono con lui. L’anziano pontefice Gregorio XVI, invece, è disgustato di tutta questa gente in combutta col Demonio. Nel 1846 legge irritato una nuova petizione di Manzi, che reclama a gran voce la ferrovia. Insolenti e scomunicati!

Papa Gregorio è un ultra-conservatore, che dei treni e dei loro sbuffi luciferini non vuole neppure sentirne parlare. Poco importa se un altro re, più conservatore di lui, Ferdinando delle Due Sicilie, la ferrovia ce l’ha già dal 1839 (la Napoli-Portici) e nel Lombardo-Veneto, in Toscana e Piemonte sono già in cantiere piccole ma efficienti reti locali, destinate a collegarsi e anticipare, con la libera circolazione di uomini, merci e idee, un’unità d’Italia ancora tutta da inventare.

Papa Gregorio liquida le richieste degli intellettuali con un celebre gioco di parole in francese: Chemin de fer, chemin d’enfer. La strada ferrata è la strada per l’inferno: il Diavolo viaggia in treno.

Gregorio XVI risponde loro per le rime, con il Documento delle cinque obiezioni. Con un serrato elenco di critiche, Papa Gregorio dice che la ferrovia: “1. accresce la povertà; 2. danneggia i commercianti; 3. compromette la sicurezza degli Stati; 4. compromette la sicurezza interna; 5. facilita il contrabbando”.

Una risposta che non ammette repliche. Ma il progresso è fatto del dialogo tra cinque obiezioni e mille speranze; e nella stessa corte pontificia sono in molti a vedere in caute aperture verso la modernità uno strumento per rinsaldare il consenso tra il papato e i ceti borghesi.

Questa, ad esempio, è la linea di un brillante cardinale: Giovanni Maria Mastai-Ferretti (1792-1878). Mastai-Ferretti è un ultra-conservatore né più né meno come Papa Gregorio, ma passa per un liberale, perché a Roma vuole cambiare tutto, perché tutto resti com’è. Il papato deve far proprie le istanze di modernizzazione, prima che a farle sue arrivi Peppino Garibaldi.

Alla morte di Papa Gregorio, Mastai-Ferretti diventa il suo successore, con il nome di Pio IX. È il 16 giugno 1846.

Sul treno, Pio IX fa sul serio: già da luglio insedia la Commissione delle Strade ferrate, col compito di verificare tracciati e costi. Il progetto di massima della ferrovia da Porta Portese a Civitavecchia vede la luce già nel gennaio 1848. Fermate intermedie: Magliana, Pontegalera, Maccarese e oltre.

Ma è un gennaio caldo, quello del 1848. Anzi, rovente: in tutta Europa si accendono fuoco e fiamme dei moti rivoluzionari. Anche a Roma “succede un quarantotto” e Papa Pio è costretto a una precipitosa fuga, riparando a Gaeta. A Roma è scoppiata la rivoluzione. Il progetto ferroviario, per ora, viene accantonato.

Nel frattempo in città viene proclamata la Repubblica romana, retta dai triumviri Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Arriva il generale Garibaldi, per approntare le difese militari e infiammare l’animo dei patrioti romani.

Papa Pio, da Gaeta, assiste esterrefatto all’opera di quei senzadìo. Ha ottenuto il sostegno dei francesi, che inviano a Roma il generale Nicolas-Charles Oudinot (1791-1863), con un corpo d’invasione di 7000 fanti. Settemila unità sono ancora poche. Oudinot attende. Aspetta altri rinforzi via mare, di lì a breve, per espugnare Roma a passo di carica.


(articolo aggiornato il 11 Giugno 2022)