Gli anni a cavallo tra Sei e Settecento sono complessivamente anni di grande trascuratezza e forzato abbandono, nell’Agro Portuense. Le campagne diventano facile preda di banditi e persino spregiudicati cercatori di tesori.

Come Pietro Santi Bartoli (1635-1700), che attua, indisturbato, una raffinatissima razzìa di marmi dalla necropoli romana di Vicus Alexandri. Si ha notizia poco distante, a Santa Passera, di una ricerca di reliquie, avvenuta nel 1706, da parte di ignoti scavatori. Senza grandi risultati per la verità: le reliquie di Abbas-Kyros non verranno mai ritrovate.

Una cronaca del 1718 ci porta invece nella tenuta di Ponte Galera e ci parla di un feroce assassino. Il Diario della Confraternita degli Agonizzanti ce ne trasmette il nome: Carlo Antonio Anastasio, bracciante trentenne originario di Terni. La vittima si chiama Macellaro Menicuccio, macellatore di carni in via della Pace a Roma, nonché affittuario della tenuta di Ponte Galera, dove tiene le bestie al pascolo.

Questa la nuda cronaca: “Saputo che il buttero possedeva denari, [il bracciante] gli disse se per quella sera gli voleva dare alloggio. Il buon uomo gliel’accordò. Nel meglio del sonno, con un bastone, gli dà in testa. [Macellaro Menicuccio], destatosi, disse: ‘Che mi fai amico?’ Eppure non desisté, anzi gliene replicò due altre, sino che l’uccise. Cercò delli denari, e non trovò che 15 pavoli, li quali presi scappò”.

Dopo la sanguinosa rapina, del bracciante Carlo Antonio Atanasio si perdono le tracce. E “per molti mesi non si seppe dove fosse capitato”.

Sembra un “delitto perfetto”. Tuttavia, a distanza di tempo, il bracciante ritorna a lavorare in una campagna vicina: viene riconosciuto e finisce agli arresti.

A Carlo Antonio Anastasio, che nega ogni accusa, “viene data la corda”. La corda è una tortura della Roma papalina, che si infligge per ottenere veloci confessioni. Consiste nel legare le mani dell’imputato dietro la schiena con una corda, e quindi appenderlo al soffitto con una carrucola, procedendo a un doloroso interrogatorio. Per ogni risposta ritenuta menzognera, l’accusato viene lasciato cadere a terra, giù di botto. E tanto più la menzogna è grossa, tanto più violenta è la caduta. Ne esistono quattro diversi tipi: a tratto, squasso, scossa e saccata.

L’uomo “confessa e ratifica immediatamente” e la sua punizione è esemplare. Dopo essere stato impiccato a Ponte Sant’Angelo, da morto viene anche “squartato”: il suo corpo viene cioè tagliato in quattro quarti, proprio come le bestie da macello della tenuta di Ponte Galera.

Eppure, proprio in quegli anni di desolate miserie, la tenuta di Ponte Galeria conosce un’inattesa primavera culturale.

È il 15 dicembre 1734. Una carrozza percorre la via Portuense, diretta a Fiumicino. A bordo c’è un’illustre personalità: il cardinale Pietro Ottoboni, divenuto vescovo e diretto all’Episcopio di Porto, per prendere possesso della cattedra vescovile.

Ottoboni (1667-1740), oltre che un uomo di Chiesa, è stato anche il più grande mecenate italiano del suo tempo. Durante il viaggio, da uomo colto e sensibile, si sofferma a lungo a guardare la solitaria austerità di Ponte Galeria e da subito se ne innamora. Ripercorre la sua vita, brillante e fortunata. Adesso che è un uomo anziano, sa che quelle lande sferzate dal vento marino saranno il suo “buen retiro”, la sua ultima casa. Le sente già intimamente sue. E di lì a breve porterà a Ponte Galeria migliorie materiali, cibo spirituale e arte.

La sua vita precedente merita di essere raccontata.

Nobile di origine veneta, arriva a Roma giovanissimo, grazie ai favori del prozio papa Alessandro VIII, che lo nomina cardinale a soli 22 anni. Da subito entra a far parte dell’Arcadia, un movimento letterario contrapposto all’ampollosità del barocco, cui è opposto il recupero della semplicità pastorale del mondo antico.

Uno dopo l’altro, il cardinale prende sotto la sua ala protettrice il poeta Metastasio, i musicisti Corelli, Scarlatti e Händel e l’architetto Juvarra. In pittura promuove “neovenetismo”, una corrente figurativa romana che porta in pittura gli stessi principi di semplicità dell’Arcadia: Ottoboni fa arrivare a Roma uno stuolo di pittori.

Al termine dunque di una brillante carriera ecclesiastica e mondana ritroviamo dunque Ottoboni nell’Agro Portuense, per godersi il meritato riposo.

Ai primi del 1735 decide che la sua collezione di antichità non gli serve più, e la regala ai Musei Capitolini, dedicandosi a visitare la sua diocesi.

A Ponte Galera Ottoboni si occupa di alcune sistemazioni ma si accorge da subito che manca una vera e propria chiesa. Per sentire messa i bifolchi usano da almeno un secolo una grotticella. Ottoboni la trasforma in una cappellina rurale, aggiungendo un avancorpo, con copertura a doppia falda e un unico lucernario circolare. Sul fronte fa incidere il suo stemma nobiliare. La cappellina prende il nome di Chiesuola della Sanctissima Eucharistia.

La chiesuola esiste ancora oggi, anche se da fonti orali apprendiamo che è da tempo sconsacrata. Dalle stesse fonti apprendiamo che conterrebbe ancora, al suo interno, resti sbiaditi di pitture settecentesche a fresco e, in fondo alla grotta, sarebbe presente una Natività in formelle in terracotta. I fregi marmorei dell’altare sono stati traslati nella vicina chiesa di Santa Maria Madre della Divina Grazia.


(articolo aggiornato il 13 Ottobre 2022)