Nel 390 a.C. calano da nord i Celti, inattesi e rapidissimi. Prendono Roma senza darle il tempo di comprendere, né di reagire. È uno shock. Si consuma l’umiliazione del saccheggio. Poi, così come sono venuti, i Celti se ne vanno, lasciando la città alle fiamme. Nell’aria irrespirabile di fuliggine i senatori preparano l’evacuazione. Ma un centurione si oppone: “Hic manebimus optime”, dice. “Qui siamo, qui restiamo. E ci staremo benissimo”.

E dal giorno dopo la ricostruzione incomincia, con una forza edificatoria che non ha precedenti. Non c’è un progetto preciso, l’importante è lavare via di corsa l’affronto. Il cantiere va avanti per oltre un secolo. Roma si dota di infrastrutture pesanti: la nuova cinta muraria, la Via Appia, l’acquedotto.

Tra fine IV e inizi del III secolo a.C. anche la Via Campana viene rimaneggiata. Si risolve l’impasse della faglia idrotermale: non potendo eliminare la tossicità del suolo, ci si passa sopra con un viadotto, retto da una sequenza di ponti di pietra. Nel 2001 ne vengono ritrovati ben 13 alla nuova Fiera di Roma, allora in costruzione. Ma i ponti sono molti di più.

Qui un’équipe di archeologi diretti da Mirella Serlorenzi compie una scoperta straordinaria, guidata dall’intuito. Costruire una sequenza di ponti su acque maledette deve aver richiesto un grande sacrificio di espiazione: forse alla Magliana si è replicato il sanguinario rituale del Ponte Sublicio, con l’immolazione di vittime umane. Se è così, nel sottosuolo devono essercene ancora le tracce. Gli archeologi scavano in profondità, finché sotto l’arco numero 9 affiora qualcosa: c’è un altare sotterraneo, la fossa di fondazione.

Il piccolo vano ipogeo restituisce inizialmente oggetti del tutto innocenti: frammenti del set ceramico utilizzato per la libagione sacrificale e tre doni per le divinità. Nell’ordine: una moneta per il Genius loci, una conchiglia per Fons e le sue nymphæ, un chiodo per i demoni. La moneta compra il permesso di attraversamento dallo spirito del luogo; la conchiglia rende quiete le sorgenti; e gli spiritelli rimangono inchiodati al suolo con il rituale magico del clavum figendi: l’infissione nella terra di una punta di ferro.

Poco distante però affiora un quarto dono, diretto a Nettuno, nume delle saline, che desta orrore e raccapriccio: è una tibia umana.

Trovare una spiegazione a quell’osso richiede agli studiosi un duro impegno. La regola del Ponte Sublicio parla chiaro: unire ciò che è separato non è vietato, si può fare, ma gli dei in cambio chiedono sangue. È stata dunque immolata una vittima per ciascuna delle arcate del viadotto? Si tratterebbe di un’ecatombe.

Fortunatamente, le cose non sono andate così. Gli archeologi scoprono che la tibia umana ha le epifisi incomplete: è un osso decalcificato, cui il tempo ha fatto cadere i rigonfiamenti alle estremità. Al dio Nettuno non viene offerto, dunque, un uomo vivo, ma la tibia di un uomo già morto e sepolto da tempo, presa in chissà quale necropoli. Il rito del Ponte Sublicio dunque c’è stato per davvero, ma in forma simbolica: la prescrizione divina è stata adempiuta, ma nessuno si è fatto male.

La corsa verso il progresso (la costruzione di una strada) e la stretta osservanza di regole ancestrali convivono alla Magliana, attraverso l’idea ingegnosa di sostituire il sacrificio di un uomo vivo con l’osso di un uomo morto. Ne emergono caratteri avanzati, più che regressivi. Alla Magliana, insomma, hanno ingannato gli dei. Ma a fin di bene.


(articolo aggiornato il 19 Novembre 2022)