16 dicembre 1998: il crollo e i soccorsi

È il 16 dicembre 1998, notte fonda di un mercoledì incominciato da poche ore. Via di Vigna Jacobini è una traversa interna della via Portuense: tutti dormono, nella palazzina di cinque piani al civico 65.

Alle 3:06 – all’improvviso, e senza segnali premonitori – la palazzina collassa su se stessa, con un interminabile boato, seguito dal silenzio.

Quando le polveri si depositano al suolo, nessuno grida né chiede soccorso: il disastro ha colto tutti nel sonno.

I vigili del fuoco arrivano nel giro di minuti e mezz’ora dopo stanno già spalando le macerie. Si scava a mano, perché si viene a sapere che tra i 38 residenti della palazzina ci sono sette bambini. Troppo rischioso usare le pale meccaniche.

Le luci del giorno rivelano uno scenario lunare, con i volumi della palazzina inghiottiti da un cratere. Ai bordi si raduna una piccola folla in cerca di notizie.

Accorrono i cronisti. Il titolare di un’autofficina racconta loro la piccola umanità che vive nello stabile: “Povera gente, li conoscevo tutti”, dice. Poi l’uomo sente il bisogno di raccontare una storia remota. Nella zona, racconta, un tempo c’erano vecchie cave di pozzolana. Forse ha ceduto la volta di una galleria.

Il lavoro dei pompieri intanto procede senza sosta. In mattinata hanno già estratto 16 corpi senza vita. Lo scavo va avanti minuzioso, in concentrato silenzio.

Nel pomeriggio, alle 15:40, la scena si anima all’improvviso: un cane da soccorso fiuta due persone e si mette ad abbaiare. Alberto e Luciana, entrambi sessantenni, vengono tirati fuori. Vivi. Il materasso e il letto li hanno protetti, come in una bolla, salvandoli da una caduta di tre piani.

E arrivano altre buone notizie, ci sono degli scampati: in tutto sette fortunati che quella notte si trovavano fuori casa. Si vengono a conoscere le loro storie: un autotrasportatore che aveva accettato un turno di lavoro extra; e un’intera famiglia – padre, madre e bambino – che si era regalata una provvidenziale vacanza fuori Roma.

Il bilancio finale conterà 27 vittime. Tra di loro sei bambini: Giorgia di 8 anni, Edoardo di 4, Giordano di 3, Claudia e Jacopo entrambi di un anno, Alessio di appena 4 mesi.

I funerali, il 22 dicembre, si tengono alla basilica di San Paolo, alla presenza del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Roma non vedeva tante bare allineate dal 19 luglio 1943, giorno delle bombe a San Lorenzo.

Le possibili cause

Sui giornali intanto si comincia a parlare di un “crollo anomalo”, che appare senza possibili spiegazioni.

Una a una, infatti, tutte le ipotesi iniziali vengono escluse. Sotto la palazzina non ci sono cavità sotterranee, né avvallamenti insoliti. Le verifiche statiche sulle palazzine vicine hanno dato tutte riscontri nella norma.

Quella notte non ci sono state neppure fughe di gas, né perdite idriche, né esplosioni. E nessuno, tra i superstiti o nel vicinato, prima del crollo aveva udito sinistri scricchiolii, notato crepe nei muri o percepito qualche avvisaglia di pericolo. Nessun incidente e nessun campanello d’allarme, insomma.

Negli uffici comunali non risulta nessun abuso edilizio o manomissione delle strutture. E emerge anzi che appena cinque anni prima, tra il 1992 e il ‘93, la palazzina è stata rimessa a nuovo, con un restauro a regola d’arte e con tutti i permessi.

Sui giornali a quel punto l’attenzione si concentra su una tipografia, situata al pianterreno e nel piano interrato della palazzina crollata.

Viene descritta come una stamperia artigianale di lungo corso, che nel tempo è cresciuta e nel 1957 ha ampliato i suoi locali oltre la sagoma della palazzina; e via via si è dotata di macchinari moderni fino a diventare una piccola realtà industriale. Tutto con regolari autorizzazioni e permessi della Asl.

A questi fatti, documentati, i giornali affiancano le voci di quartiere, secondo le quali un anno prima del crollo sarebbe stato tagliato un pilone portante, per agevolare l’ingresso dei furgoni all’interrato. Questa voce non troverà mai riscontri.

È a quel punto, tuttavia, che l’opinione pubblica si schiera, attribuendo alla tipografia la colpa di un crollo che non ha apparenti altri motivi.

Di lì a breve vengono formalizzate le accuse nei confronti dei due amministratori della tipografia: disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Il processo che ne seguirà sarà lunghissimo: durerà 21 anni e si concluderà nel 2019.

Un processo ripetuto due volte

Le prime fasi processuali procedono abbastanza spedite.

Emerge subito che la palazzina di Vigna Jacobini, così come molte palazzine romane del Dopoguerra, è stata tirata su in fretta e con materiali scadenti. Nelle carte si legge che il calcestruzzo è “di scarsa qualità”, miscelato “con estrema disomogeneità”; e il progetto “presenta delle carenze”, con pilastri troppo piccoli e destinati nel tempo alla “riduzione della portanza”, cioè sempre meno capaci di sostenere il peso dello stabile.

La tesi dell’accusa è che la presenza di un impianto industriale nell’interrato, producendo “una vera e propria bomba micro-climatica”, abbia abbia accelerato l’indebolimento della struttura, fino al collasso.

Nel 2002 la sentenza di condanna per i due amministratori soppesa questi elementi: c’è un edificio mal costruito e un’attività industriale che ne ha accelerato il disfacimento. Le pene sono miti: due anni e otto mesi. Uno dei due amministratori, nel frattempo, è deceduto.

Il processo di appello conferma la condanna, e riduce ulteriormente la pena, a due anni.

Dal 2006 il processo arriva in Cassazione e qui tutto si complica e diventa di difficile racconto: nei successivi sette anni ci saranno due annullamenti e due ripetizioni del processo di secondo grado.

L’appello-bis e l’appello-ter riprendono in esame le carte dei periti, e provano a rispondere con il metro dell’ingegneria edile alle tante domande poste dalla tragedia. Quanto l’attività della tipografia ha influito sulle condizioni di uno stabile già indebolito dai suoi difetti costruttivi? In assenza di segnali di cedimento, si poteva prevedere il crollo? E soprattutto: quelle vite si potevano salvare?

Le risposte arrivano con la sentenza del 2019, che assolve il tipografo con formula piena: “il fatto non sussiste”, e ci consegna una verità processuale senza colpevoli: lo stabile, mal progettato e mal costruito, sarebbe crollato comunque.

Le iniziative della memoria

Ogni anno, nella ricorrenza del crollo, si tiene un commosso ricordo di quei fatti, di fronte alla lapide memoriale della vicina via Solari.

Di recente, nel marzo 2022, una delegazione di familiari ha incontrato il sindaco Gualtieri. La Commissione Toponomastica comunale, riunitasi poco dopo, ha individuato nel vicino giardino di piazza Puricelli un luogo da dedicare alla memoria di quei tragici accadimenti.


(articolo aggiornato il 29 Ottobre 2022)