Tra le voci contrarie al Campo trincerato di Roma vi è quella lucida e autorevole di Giuseppe Garibaldi, “eroe dei due mondi”, che ritiene il Campo trincerato un’opera inutile e costosa.

Il condottiere esprime le sue posizioni in una corrispondenza datata fra marzo e agosto 1877 con il direttore della Gazzetta di Roma, la cui riscoperta si deve alla ricercatrice Ritucci. La prosa di Garibaldi è gradevolissima, in uno stile immediato che unisce l’enfasi risorgimentale con la schiettezza e l’ironia di chi la sa lunga.

Uno dei primi scritti, intitolato “Fortificazioni di Roma” datato 20 marzo 1877, così conclude: “Speriamo che questi milioni non servano soltanto a ingrassare gli appaltatori e i generali! Sono le loro borse che vengono le più volte fortificate!”.

Ma il talento di Garibaldi è nel raggiungere le corde del cuore, infervorare gli animi: Garibaldi è uno che sa partire in mille e ritornare con in mano una Nazione. Il 16 agosto scrive: “La Patria non vive dietro i muniti castelli! Essa vive nel petto dei cittadini! Coteste parole vorrei le meditassero Depretis e Mezzacapo, nel loro poco serio progetto di fortificar Roma! Roma ha bisogno d’esser abbellita, preservata dalle inondazioni, non attorniata da fossi, che sono una sèntina di febbri!”.

Non mancano in effetti le argomentazioni. La critica principale è che il Campo trincerato non ferma i bombardamenti a lunga gittata: “Ricordatevi – scrive il generale – quanto hanno resistito le fortificazioni di Parigi, Silistria, Rustsciuk e Nicopoli!”. E poi c’è il fattore-tempo: “A eriger fortificazioni occorre troppo, possono scoppiare dieci guerre prima che esse siano compiute!”. Garibaldi osserva infine che non serve fortificare l’intera città; è sufficiente fortificare una cittadella ristretta “tra Vaticano, Gianicolo, Aventino, Palatino, Campidoglio, Esquilino e Pincio”, senza costruire molto di nuovo ma semplicemente rimodernando le vecchie Mura pontificie con l’aggiunta di una moderna piazzaforte a Monte Mario.

Man mano che la corrispondenza va avanti, Garibaldi getta sul tavolo una sua proposta, alternativa: abbandonare l’idea dei forti e impiegare i fondi per armare una Guardia nazionale con fucili di ultima generazione, i temibili chassepots a retrocarica. Garibaldi gli chassepots li conosce bene: è con gli chassepots che i francesi gli hanno dato una sonora batosta nel 1866, a Mentana. La chiave per sconfiggere i francesi, dice Garibaldi, è nell’innovazione tecnologica. Con la retrocarica cambia il modo di fare la guerra: il bossolo non viene più introdotto da davanti (dalla “bocca della canna”) ma dalla parte posteriore (la “culatta”); quando il “cane” colpisce il bossolo liberando la carica, l’otturatore si apre automaticamente, espellendo il bossolo vuoto e preparandosi a accoglierne immediatamente uno nuovo. Questa rivoluzione tecnologica fa passare dai 3 o 4 colpi-minuto tradizionali a 10. In poche parole un fuciliere con chassepots vale tre moschettieri tradizionali; la potenza di fuoco triplica.

Leggiamo la prosa diretta di Garibaldi, in una lettera del 18 agosto: “Tutti converranno che le migliori fortificazioni di Roma sono i petti de’ suoi cittadini. Ebbene, non si è ancora armata la Guardia nazionale di Roma di fucili a retrocarica! Si avrà bel spendere per alzare fortificazioni, saranno denari buttati! Le vedremo cadere in mano al nemico senza contrasto”.

Neanche a dirlo, appena Garibaldi scopre le carte con l’idea di armare la Guardia nazionale, trova l’immediata e ferma opposizione di Agostino Depretis, inorridito alla sola idea di armare le masse di Roma.

Le posizioni di Depretis e Garibaldi sono troppo diverse per trovare una sintesi. Mentre Garibaldi scrive, la decisione di costruire i forti è già presa.

I lavori iniziano con febbrile attività nell’ottobre 1877, sotto la direzione del progettista Luigi Garavaglia. Non disponiamo di relazioni sull’andamento dei lavori, condotti con segretezza, celerità e marziale determinazione.

La ricercatrice Francesca Ritucci, che si è cimentata nella loro ricerca nell’archivio ISCAG, ha così annotato: “I lavori per la costruzione dei forti […] sono condotti con una certa urgenza e uniformità. Non è rilevante documentare quale architetto o ingegnere, o quali e quanti operai siano impiegati nei lavori di costruzione; elaborare rapporti che documentassero le fasi tecniche e progettuali, grafiche ed eventualmente fotografiche. Nulla di tutto questo è stato possibile rintracciare, tranne i disegni originali elaborati per lo studio delle piante e delle sezioni delle murature”.

Si procede rapidamente, dunque, senza una specifica autorizzazione per ogni singola opera: il ministro della Guerra, ottenuta dal Consiglio di Stato l’autorizzazione complessiva, ottenuto il nulla osta dell’ufficiale preposto al singolo progetto, avvia i lavori. Il controllo sui lavori è operato da una commissione speciale, di cui fanno parte il generale Bruzzo, due comandanti territoriali del Genio dell’Artiglieria, il direttore del Genio militare di Roma e i singoli capitani del Genio cui è affidata la progettazione del singolo forte.

La commissione adotta un modo di procedere abbastanza uniforme: effettua un primo sopralluogo nella località prescelta; seguono delle riunioni per stabilire la conformazione della struttura secondo le condizioni del terreno e gli adattamenti necessari con sbancamenti e riporti di terra, che terminano con un progetto di massima; a questo punto i genieri appongono sul posto dei picchetti in legno e corda che delimitano il tracciato del forte, e la Commissione effettua il secondo sopralluogo; a questa fase seguono nuove riunioni, nelle quali si elaborano ulteriori modifiche, che terminano con la redazione di un progetto definitivo. L’ultimo passaggio è la firma per approvazione del Ministro della guerra, che in alcuni casi visita di persona l’area del cantiere.

Anche la costruzione di Forte Portuense, sulla Collina degli Irlandesi, è iniziata. È il 1877. Viene scavata una piazzaforte poligonale sotterranea, estesa su cinque ettari.

La ricercatrice Ritucci ha rinvenuto qualche notizia costruttiva sul Forte Portuense. Nell’estate 1877 la commissione militare ispeziona la collina degli Irlandesi per una prima ricognizione e dispone profondi modellamenti: lo sbancamento della sommità e lo scavo di una piazza poligonale sotto il piano di sbancamento, e la formazione con i materiali di riporto di una cintura di spalto artificiale scarpata in direzione dell’odierno vicolo di Forte Portuense. Dispone infine la deviazione a valle di Via Portuense, come ostacolo ad un’eventuale avanzata nemica.

La commissione torna sulla collina una seconda volta, a distanza di pochi giorni, e in seguito il progetto è approvato dal ministro della Guerra, generale Luigi Mezzacapo.

L’apertura del cantiere data al 12 novembre 1877, per opera della Divisione Materiale della Direzione del Genio militare. L’esecuzione dei lavori non incontra “nessun inconveniente” e il 7 febbraio 1878 il generale Enrico Cosenz, ex comandante della Divisione militare di Roma, può già scrivere al ministro della Guerra per invitarlo a visionare i lavori: “Signor Generale, ho ricevuto i suoi due biglietti […]. Io desidererei che Ella vedesse i forti Portuense e Troiani e sono sempre a sue disposizioni. Queste gite lungi dall’essere un disturbo per me, mi sono invece molto utili”.

A fine opere il forte avrà un costo di 733.000 lire: rispetto ai forti successivi sarà un esempio di parsimonia.

Chi ha dunque ragione, nella disputa tra Garibaldi e Depretis sui forti militari?

La Storia ha dato ragione a Depretis e torto a Garibaldi: la Francia, impressionata dal gran dispendio di risorse intorno ai forti militari di Roma, finisce per credere che gli italiani stiano facendo sul serio e rinuncia ai progetti di invasione. Anche questo è un talento italiano: vincere le guerre al di fuori del campo di battaglia. Una guerra evitata, in fondo, è una guerra vinta.

Ci avviciniamo al Forte Portuense da un vialetto moderno, al civico 545 della via Portuense. Una passerella in acciaio e cemento sostituisce l’originario ponte levatoio in legno. Ne rimangono oggi i pilastri, mentre le parti in legno (la parte fissa chiamata “dormiente” quella sollevabile chiamata “levatoio”) sono oggi perdute.

L’ingresso, chiamato anche “Garitta monumentale”, è costituito da due elementi architettonici: l’impalcato a prova di bomba (un telaio in calcestruzzo e riporti di terra, solidale con la roccia di tufo che si trova dietro), e il portone corazzato vero e proprio, in ferro.

L’impalcato presenta elementi decorativi: le lesene, l’architrave, i rivestimenti bugnati. La particolarità però è che essi hanno una mera funzione estetica e nessuno di essi è strutturale. La ricercatice Francesca Ritucci, autrice di una documentata tesi di laurea su Forte Portuense, giustifica la cosa così: “Quello che vediamo è un lungo muro di cinta sempre uguale a se stesso fino al momento in cui, in prossimità delle porte, il progettista sente l’esigenza di una nobilitazione, il bisogno di collegarsi alla Storia, abbandonando la mera funzione cui è relegato un muro. Ed è nel portone d’ingresso che si nota l’incredibile scollamento tra due memorie e due modi di progettare: è qui che l’architetto ricorre al lessico avuto in eredità dal Rinascimento, riprendendolo al punto in cui lo hanno lasciato i Sangallo e Leonardo”.

All’interno dell’impalcato è montata la porta corazzata in ferro, restaurata nei primi Anni Duemila. Le condizioni del portone erano in effetti da tempo assai precarie. Ritucci ha trovato una pagina del Tempo che ne parla già dal 1961: “Un misero resto di garitta espone al vento e alla pioggia un superstite scheletro di ferro, con qualche brandello di cemento ancora aggrappato di qua e di là”.

Nel 2006 il portale è stato anche “riarmato”: sono state cioè rimontate sull’architrave le insegne militari del forte, ritrovate nel magazzino, con il nodo sabauda e il motto “FERT” (“Fortitudo Eius Rhodum Tenuit”, la forza di Casa Savoia difese i Cavalieri crociati). È stato correttamente osservato che la presenza di insegne di armatura, secondo le consuetudini militari, indica che il forte è ancora in attività: si tratta insomma di un falso storico.

Varcata la porta corazzata ci ritroviamo in un androne a pianta rettangolare, con volta a botte, affiancato da quattro ambienti funzionali: la stanza dell’ufficiale di guardia, la stanza del corpo di guardia, l’ascensore delle polveri (provenienti dalla polveriera al piano inferiore) e infine il piccolo deposito di polveri per la difesa di prossimità. I due ambienti vicini all’ingresso sono dotati di feritoie: sono in grado di sparare in tiro frontale, in caso di attacco da distanza ravvicinata.

Ci ritroviamo quindi ad un crociccio voltato, un incrocio tagliato in lungo dalla “Grande galleria anulare”, che è una strada carrabile interamente sotterranea con volte a botte che percorre l’intero perimetro del Forte. Svoltiamo a sinistra e entriamo nella galleria, alla luce delle torce elettriche. Se qualcuno dovesse perdersi, in questi ambienti sotterranei, è sufficiente continuare a camminare lungo la galleria anulare: prima o poi ritornerà all’ingresso.

Percorriamo un primo tratto della galleria anulare, alla luce di torce elettriche. Intersechiamo i vani scale che ci conducono, due piani sopra, ai piani di batteria. E intersechiamo anche il curioso ambiente delle latrine di terza classe: si tratta di un ambiente comunitario, destinato alla truppa, dotato di una fossa settica ma privo di un impianto fognante.

Una volta percorso un quarto della galleria ci ritroviamo, improvvisamente, avvolti dalla luce naturale, che irrompe diretta dalla piazza interna, chiamata “piazza d’armi”.


(articolo aggiornato il 14 Ottobre 2022)