La Roma di Adriano vive un tempo di efficienza economica, tolleranza culturale, fermento delle arti. Eppure vive anche una sottile inquietudine, legata all’imminenza di un passaggio d’epoca. Adriano, da sensibile letterato, è capace di intuire che la parabola di Roma avrà una fine, così come la vita di ogni individuo.

Questo senso di straniamento ci è raccontato con maestria dalla scrittrice francese Marguerite Yourcenar (1903-1987), autrice nel 1951 del romanzo Memorie di Adriano. La scrittrice fa pronunciare ad Adriano versi famosissimi: “Ànimula, vàgula, blàndula: hospes comes corporis!”. Cioè: “Anima fragile e vagabonda: tu non sei un corpo, tu hai un corpo!”. “E quando te ne allontanerai – prosegue – resterà di te un’ombra, che vivrà nel rimpianto dei giochi infantili”.

Proprio in quell’anno, il 1951, avviene su via della Magliana Antica un ritrovamento eccezionale: una tomba a camera del tempo di Adriano, che sembra andare a rispondere, con immagini dipinte a fresco, al quesito esistenziale posto dalla Yourcenar. Dall’altra parte, assicura uno sconosciuto pittore, ci sono i Campi elisi. E lì, si potrà giocare ancora.

Gli affreschi raccontano la vita spensierata di due ragazzini – forse fratello e sorella –, fatta di giochi infantili e della costruzione delle prime relazioni sociali. Ai due ragazzini, che in vita si sono condotti secondo pietas e iustitia – la pietas è il rispetto delle leggi divine, la iustitia delle regole umane – è concessa la ricompensa di accedere ai Campi elisi, un luogo di eterna primavera in cui vivere nel proprio “tempo migliore” e giocare per sempre ai giochi prediletti. Gli affreschi ne fanno l’elenco, scena dopo scena.

La prima scena raffigura la corsa spericolata di un ragazzino su un carretto a tre ruote, il plaustrum, straordinariamente simile a un moderno monopattino. Con una gamba si tiene in equilibrio sul telaio e con l’altra sospinge la corsa. Questo oggetto antico è capace di incarnare un sogno senza tempo: correre senza freni alla velocità del vento.

La seconda scena ci immerge nella socialità del gioco degli astragali, parenti poveri dei dadi. Quattro giovanissimi sono seduti a terra, mentre un quinto effettua il lancio. Gli astragali sono ossicini del tarso posteriore dei caprini, con sole quattro facce utili: la faccia piatta (chiamata canis, cane) vale 1 e quella opposta (il Venus, Venere) vale 6; ai lati si trovano il cavo e il dorso, che valgono 3 e 4; mancano il 2 e il 5.

La terza scena ci fa giocare alla moscacieca. Lo scrittore Pollione ci ha trasmesso molte informazioni su questo gioco, che i Romani chiamano musca eburnea (“mosca bianca”). I compagni di gioco recitano una filastrocca – “Inseguo la mosca bianca” – e la mosca, con le mani a coprire gli occhi, risponde: “La cerchi, la trovi, non la acchiappi”. Questo dialogo permette alla mosca di ritrovare l’orientamento e i compagni di gioco.

L’ultima scena raffigura il gioco della pallavolo, il trigon. Tre ragazzini colpiscono una palla fluttuante nell’aria: la pila trigonalis, un piccolo sacco di cuoio imbottito di sabbia. L’obiettivo comune è tenere la palla sospesa il più a lungo possibile, finché uno dei giocatori vi pone termine con un lancio di forza, una moderna schiacciata.

Il trigon è una delle infinite varietà del gioco della palla – lo sphæristerium –, per il quale i Romani di ogni età impazziscono. Se il trigon è un gioco per ragazzini, gli adulti praticano il pulverulentus, il “gioco che fa polvere”, a metà tra calcio e rugby, in cui ci si contende a spintoni il possesso di una piccola palla di cuoio piena di sassolini, l’harpastum. C’è poi la paganica, una grande palla di stoffa riempita di piume, destinata alla prima infanzia. Ma tra tutte, la palla più desiderata è il follis, una palla molto grande e gonfia d’aria, con cui giocano gli anziani nelle terme.


(articolo aggiornato il 6 Ottobre 2022)