Nel 1990 Renatino è ormai il re di Roma e si muove in scooter, senza neppure un guardaspalle al seguito.

Ignora tuttavia che un altro sodale, Marcellone Colafigli, ha cominciato a trattare affari in proprio con la mafia siciliana e medita di spodestarlo. Marcellone attende De Pedis al varco, il 2 febbraio 1990.

Il re di Roma è appena uscito da una bottega antiquaria su via del Pellegrino. Due sicari in moto gli esplodono contro un solo colpo, centrandolo alle spalle. De Pedis cade a terra.

Il re è morto.

E la lotta fratricida tra i componenti della banda sembra non avere fine. Nel 1991 muore il pentito Sicilia il Vesuviano, freddato davanti a un negozio di scarpe alla Montagnola.

Tra i componenti storici, ormai, l’unico ancora in vita è Maurizio Abbatino. Ed è vivo solo perché si è volatilizzato. Neppure gli investigatori, che tengono sotto controllo i telefoni dei familiari da sei anni, sanno dove si sia nascosto. L’ultimo giorno del 1991 però arriva alla Magliana una telefonata brevissima, di appena due parole: “Buon anno”. Clic. A parlare è proprio lui, Abbatino, l’ultimo boss.

La telefonata proviene da un angolo remoto del globo: dal Venezuela. Criminalpol e squadra mobile si mettono sulle sue tracce, finché lo trovano e lo arrestano. È il 1992.

Dopo l’estradizione Abbatino sorprende gli inquirenti: anche lui si è pentito e inizierà a collaborare. Punto su punto, l’ultimo boss conferma ai magistrati le rivelazioni di Lucioli er Sorcio e del defunto Sicilia. Parla come un fiume in piena e racconta storie incredibili, lui che la banda l’ha fondata, vista crescere e prosperare. E infine cadere.

Poco dopo si pentono anche Vittorio Carnovale er Coniglio e Fabiola Moretti, compagna di Mancini l’Accattone. Anche Mancini si pente.

Ora tutti parlano, tutti rendono racconti straordinariamente dettagliati e convergenti. Ne esce fuori un fascicolo monstre di 500 pagine, con cui il giudice Otello Lupacchini emette 69 ordini di cattura.

Il blitz della squadra mobile scatta il 16 aprile 1993, all’alba. Nome in codice: Operazione Colosseo. Quelli che contano finiscono quasi tutti in carcere.

Per qualche mese la banda esce fuori dai radar dei giornali romani.

Ma i cronisti, per una storia o per l’altra, alla Magliana ci tornano sempre. E in quello scorcio di Anni Novanta, ad esempio, scriveranno molto su un nuovo fattaccio, che però non c’entra nulla con la banda: si tratta di un infanticidio plurimo. Tullio Brigida e sua moglie Stefania si sono conosciuti alla Magliana, poi il rapporto si è logorato e lei si è trasferita altrove, portando con sé i figli: Laura di 13 anni e i piccoli Armando di 8 e Luciana di 3. Tullio li ucciderà nel gennaio 1994, con le esalazioni di monossido di carbonio. I loro corpi saranno ritrovati molto tempo dopo, nelle campagne di Cerveteri.

Novembre 1995: ancora fattacci targati Magliana. Una bambina di nove anni, che vive al campo rom di via Candoni, chiede l’elemosina alla metro: “Vengo di Bosnia, non ho genitori, non ho mangiare…”, dice con voce cantilenante. Un turista impietosito si ferma ad ascoltare la sua storia, mentre un nugolo di baby-ladri lo accerchia e gli sfila via il portafogli. Uno scellerato giustiziere assiste alla scena e decide di intervenire: afferra la bambina per i polsi, fino a spezzarli.

Della banda della Magliana si tornerà a parlare in un giorno preciso: il 3 ottobre 1995. È il giorno d’avvio del maxi-processo seguito all’operazione Colosseo. Va in scena l’atto finale di una vicenda quasi ventennale.

Per contenere i 69 imputati è stato necessario requisire la palestra olimpionica del Foro italico, trasformata in aula bunker. La lista delle accuse è infinita – omicidi, narcotraffico, estorsioni, rapine, riciclaggio – ma tra tutte la corte d’assise presieduta dal giudice Francesco Amato è chiamata ad appurarne una particolarmente delicata: il sodalizio della Magliana è una “associazione a delinquere di stampo mafìoso”?

A differenza della mafia siciliana infatti, la banda romana è un fenomeno sostanzialmente anarchico, senza una gerarchia piramidale o una cupola, con assetti interni perennemente contendibili. La banda della Magliana insomma non assomiglia affatto alla mafia siciliana; però, attraverso altre strade, ha ugualmente conseguito il controllo violento del territorio. Proprio come la mafia siciliana. Nella requisitoria del giugno 1996 il pubblico ministero Andrea De Gasperis chiede quasi cinquecento anni di carcere e sei ergastoli.

La sentenza, 23 luglio 1996, è storica: la mafia romana esiste.

I pentiti ottengono condanne attenuate dai benefici di legge: Abbatino dodici anni, Vittorio Carnovale dieci anni, Mancini un anno, Fabiola Moretti dieci mesi. Per gli altri le pene sono pesantissime: ergastolo per Colafigli, due ergastoli per Paradisi, quattro per Pernasetti. Mastropietro e Danesi rispettivamente 30 e 25 anni; Carminati dieci anni, Nicoletti e Piconi sei anni.

Il maxi-processo alla Banda va in appello e ne segue, nel febbraio 1998, qualche riduzione di pena.

Quella storia finisce qui, con il carcere per i pochi ancora in vita. La banda delle origini – i gangster de’ noantri, efferati e allo stesso tempo scalcinati – radicata tra Magliana, Testaccio e Acilia, può considerarsi oggi un fenomeno storicamente concluso, nel momento in cui si è esaurita la vicenda umana dei suoi protagonisti.

Vale la pena, tuttavia, proiettare il racconto negli anni successivi e raccontare che per buona parte degli Anni Duemila rimarranno ancora attive su piazza le seconde e terze file dell’organizzazione, in un crogiuolo eterogeneo di “vecchie glorie impenitenti”, fiancheggiatori di un tempo desiderosi di conquistarsi i galloni sul campo, e nuovi sodali dai ranghi della criminalità emergente.

Possiamo farcene un’idea sommaria attraverso una rapida occhiata alle cronache. Nel 1999 è arrestato in Spagna Enzetto Mastropietro, a suo tempo vicino ad Abbatino; nel 2002 avviene l’omicidio di Paoletto Frau: assolto nel maxi-processo, era diventato una figura di spicco della nuova criminalità di Ostia.

Nella Roma criminale intanto cambiano geografia del crimine, attività ed equilibri del potere. Nel 2008 a Centocelle avviene l’omicidio di Umberto Morzilli. La sua è una lunga gavetta criminale, dal piccolo spaccio ai grandi affari immobiliari. Nel 2009 ad Acilia viene giustiziato Emidio Salomone, attivo nella nuova mala del Litorale. Nel 2010 c’è l’arresto di Enrico Nicoletti, il cassiere della banda, che con altri sodali avrebbe costituito un’organizzazione dedita al riciclaggio e truffe. Nello stesso anno la squadra mobile sventa una rapina a un caveau e si imbatte in un’altra vecchia gloria: Mario Vitale er Gnappa, legato a De Pedis.

Nell’estate 2011 viene freddato il giovane Flavio Simmi: molti suoi familiari sono stati coinvolti e pienamente prosciolti nell’Operazione Colosseo. Nello stesso periodo, per un’indagine su aste giudiziarie e usura, ritorna il nome di Nicoletti. Un’altra indagine, su sale gioco e estorsioni, porta all’arresto di un altro veterano: Giuseppe De Tomasi detto Sergione. Nel 2012 una rapina in gioielleria finisce male e muore Angelo Angelotti; anche lui un tempo è stato vicino alla banda.

Questa catena di arresti e omicidi così diversi ci dà la cifra di una mutazione, avvenuta nella banda. Il nucleo dei fondatori ha ceduto lo scettro a un nuovo organigramma, che ha spostato la capitale del crimine – dalla Magliana al Litorale – e ha cementato le figure marginali di un tempo con le realtà criminali emergenti. La banda ha dismesso la vecchia pelle e le forme in cui l’abbiamo conosciuta, per indossare nuovi abiti e colletti bianchi.

Fino a diventare altro.

Raccontare questo altro ci porterebbe lontano, in un’altra storia.

I giornali torneranno ad evocare la banda nel dicembre 2014, in occasione dell’operazione di polizia “Mafia capitale”, nella quale finiscono in carcere l’ex terrorista nero Massimo Carminati e numerosi altri, tra i quali il capo delle cooperative sociali romane Salvatore Buzzi, ritenuto il suo braccio destro. La procura ipotizza l’esistenza di un’associazione mafiosa operante a Roma, in grado di condizionare gli appalti e mettere a libro paga politici e amministratori comunali, in maniera quasi bipartisan.

Le cronache giornalistiche raccontano diffusamente questo “mondo di mezzo” – sospeso a metà tra volti rispettabili e il più oscuro malaffare – senza apparente soluzione di continuità con le attività eversive dei Nar e i traffici della banda della Magliana. Eppure, quella banda non esiste più da tempo: la sua storia si è fermata il 3 ottobre 1995, con il maxi-processo seguito all’operazione Colosseo.

Eppure, già nel 2010 il boss pentito Antonio Mancini, in una lunga intervista al periodico L’Espresso, parlava di una “nuova banda”, dai caratteri invisibili: “Roma è ancora in mano alla banda”, dice. “Fa affari importanti. Ha usato e continua a usare i soldi di chi è morto o è finito in galera. E non ha più bisogno di sparare, o almeno di sparare troppo spesso”. Mancini lascia intendere che ci sono nomi ancora da scoprire: “La cassa, i soldi, li hanno quelli che sono stati solo sfiorati dalle indagini e ne sono venuti fuori alla grande, potendo tranquillamente continuare a fare i loro affari. Io mi chiedo che fine hanno fatto i palazzi, i centri commerciali, i night club…”.

All’arresto eclatante di Carminati segue un processo di non facile racconto. Nell’aprile 2017 il pubblico ministero chiede la sua condanna a 28 anni di carcere. A luglio la sentenza di primo grado riconosce Carminati colpevole di associazione a delinquere, con una condanna a 20 anni, senza l’aggravante mafiosa.

Inizia l’appello e nel frattempo un’altra indagine, su ordinanza cautelare del gip Simonetta d’Alessandro, accende un faro sulla nuova spietata mala del Litorale.

La sentenza di secondo grado, settembre 2018, ribalta gli esiti del primo: il “metodo mafioso” sussiste. Ma si tratta di una parentesi momentanea. La sentenza di Cassazione, ottobre 2019, annulla l’aggravante mafìosa disponendo il ricalcolo delle pene. La mafia a Roma, dunque, non c’è mai stata.


(articolo aggiornato il 29 Ottobre 2022)