Dalla metà del 1978 la banda incomincia un biennio di febbrili attività. Alcune di queste oggi risultano abbastanza chiare, attraverso ricostruzioni processuali, inchieste giornalistiche e saggi, che hanno indotto anche una massiccia produzione di fiction. Altre invece rimangono avvolte dalla stessa impenetrabile nebbia del Caso Moro: quella dei misteri d’Italia.

La giornalista Rita Di Giovacchino, nel Libro nero della Prima repubblica, ha ricostruito un summit tra gli uomini della Magliana e quelli di Raffaele Cutolo, capo della NCO, la Nuova camorra organizzata. L’incontro è propiziato da Selis il Sardo e da un nuovo componente della banda: Claudio Sicilia il Vesuviano. Nel vertice, la banda sceglie di approvvigionarsi di stupefacenti dalla camorra; e la camorra dà alla banda la sua benedizione per smerciarli a Roma, eliminando gli altri competitor su piazza.

In quel periodo la banda si allea anche con il Clan dei Casamonica, che opera nel settore est della città.

Altrove, invece, insorgono contrasti insanabili. A Monteverde, zona ovest, il Clan Proietti rifiuta di scendere a patti. Li chiamano “i Pesciaroli”, perché controllano i banchi ittici al mercato di San Giovanni di Dio.

Altre grane ci sono Tor di valle, con l’allibratore Franco Nicolini detto Franchino er Criminale. La banda lancia un segnale. Franchino viene giustiziato il 25 luglio 1978: nove colpi di pistola, al parcheggio dell’ippodromo.

Nessuno può dichiararsi ostile o neutrale verso la banda: o ti allei o muori.

La banda si allea anche con l’organizzazione neofascista dei NAR, Nuclei armati rivoluzionari. I Nar fanno rapine di autofinanziamento e la banda ne ricicla i proventi, ricevendone in cambio armi e lavoretti di “manovalanza criminale”. Il neofascista Massimo Carminati, appena ventenne, diventerà il pupillo del boss Giuseppucci. I primi incontri avvengono nel quartiere Marconi, al bar di via Fermi e in quello di via Avicenna.

C’è anche un secondo livello di rapporti con la destra eversiva. È una destra oscura, esoterica, che fa da cerniera con la Loggia massonica P2 e strani apparati statali. Il tramite è il “professore nero” Aldo Semerari, luminare della psichiatria forense. Semerari, che coltiva un progetto di destabilizzazione dell’ordine democratico, intende assoldare i gangster della Magliana come mercenari; in cambio offre perizie psichiatriche compiacenti, sempre utili per uscire di galera.

Nel frattempo, ancora misteri italiani: un sicario fredda il giornalista Mino Pecorelli, a colpi di Gevelot calibro 7,65. Pecorelli nell’Italia dei misteri c’è dentro sino al collo: ma chi lo ha ucciso? Le sue inchieste giornalistiche – definite aggressive, scorrette, spesso ricattatorie – hanno messo a nudo la politica romana: tra quanti hanno un movente per volerlo morto c’è la fila. Anni dopo, le indagini appureranno che i proiettili Gevelot provengono dall’arsenale della banda della Magliana. Killer e mandante rimarranno sconosciuti.

C’è anche una brutta rapina, alla Chase Manhattan Bank. L’assalto è opera dei neofascisti, la banda non è coinvolta direttamente; la banda entra in azione solo dopo, per ripulire le banconote. Succede però l’imprevisto: con nuove tecniche investigative gli inquirenti tracciano a ritroso i flussi di denaro e arrivano al boss Giuseppucci, che viene arrestato. L’arresto del capobanda non è un problema da poco. I sodali pensano di risolverlo agganciando un giudice compiacente. Ma non sarà così. Quella che sembra una debole folata di vento, avvita il volo della banda in un vortice. Di lì a breve avverrà lo schianto al suolo.

Sono anni di affermazione per la banda, e insieme di cambiamento. Si costituisce un arsenale centralizzato, nei sotterranei del Ministero della Sanità all’Eur, via Liszt 24. Il deposito è gestito con regole di sicurezza elevatissime. Solo tre sodali possono accedervi: Abbatino, Colafigli e Sicilia, oltre al neofascista Carminati. Da via Liszt provengono le armi dei depistaggi seguiti alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980. Sul treno Milano-Taranto vengono fatte ritrovare armi e documenti contraffatti, per sviare le indagini verso una pista sbagliata. È un “lavoro conto-terzi”: il committente rimarrà ignoto.

Arriviamo al 13 settembre 1980. Quel giorno segnerà per la banda l’inizio della fine.

Il boss Giuseppucci è tornato in libertà. È a Trastevere, fuori dalla sala da biliardo di piazza San Cosimato. Scatta l’agguato: ignoti lo colpiscono al fianco e al torace. Perde molto sangue. Il boss ingrana la marcia della sua Renault 5 e fugge via. Mentre guida capisce che le ferite lo porteranno in breve al dissanguamento. Raggiunge il pronto soccorso Nuovo Regina Margherita. Il boss spira sotto gli occhi dei medici.

Il capo è morto.

La banda ha perso il proprio padre. I suoi figli – De Pedis, Abbatino, Selis e tutti gli altri – organizzano ora l’implacabile vendetta.

A uccidere Giuseppucci, si viene a sapere, sono stati i Pesciaroli, quelli del clan Proietti, per rivalersi della morte di Franchino er Criminale.

La prima imboscata – contro Enrico Proietti detto er Cane, settembre 1980 – è tragicamente maldestra: al posto suo vengono ridotti in fin di vita due malcapitati. In un secondo tentativo er Cane rimane ferito. La stessa sorte tocca al figlio Orazio. Il cugino Mario detto Palledoro è ferito in due diversi agguati. Un loro affiliato viene freddato nel gennaio 1981.

La vendetta sul clan rivale segna l’ultimo momento di unità della Banda. Inizia ora una nuova fase: la lotta per la successione al boss defunto. Le tre anime dell’organizzazione – Magliana, Testaccio e Acilia – sono ora l’una contrapposta all’altra. Inizia la faida interna. Nessuno ne uscirà vincitore.


(articolo aggiornato il 22 Ottobre 2022)