Intorno al 2200 a.C. l’età del Rame finisce. Le grandi mandrie selvatiche cominciano a scarseggiare e Homo Sapiens, cacciatore e raccoglitore, deve reinventarsi. È forse in questo tempo di passaggio che l’uomo impara la prima grande lezione di sopravvivenza: accettare il cambiamento, reinventarsi, per continuare a dominare il suo tempo.
È così che Homo Sapiens impara a coltivare. Sceglie di fermarsi, di legare la propria sorte a un campo di grando selvatico, a un gregge di capre. È la nascita delle prime comunità stanziali. Anche il clima in questa fase cambia: si fa più umido, più dolce. Favorisce la cerealicoltura e offre pascoli migliori.
Nel Bronzo medio (1600-1350 a.C.) alcune famiglie si insediano sulla propaggine meridionale di un pianoro, in località Piazza d’armi, in quello che oggi è il Parco regionale di Veio, 15 km a nord-ovest dell’Isola Tiberina.
Piazza d’armi è un luogo davvero strategico: è uno sperone di tufo, alla confluenza tra un fiume (il Crèmera) e un torrente (il fosso del Piordo). In questo luogo le famiglie Sapiens piantano capanne di legno e argilla, delimitano orti con siepi di rami intrecciati. Un villaggio d’altura prende forma.
La vita ruota attorno a un focolare comunitario. La comunità celebra riti sacri attorno al fuoco, gettando semi come offerte agli antenati, per invocarne la protezione. La ceramica impressa o incisa testimonia una cultura materiale “appenninica”, attenta alla bellezza dei motivi geometrici. Piccole fornaci domestiche permettono di cuocere i vasi, ma anche di fondere il “rame arsenicale”, una lega metallica sperimentale di rame e arsenico, più resistente del rame puro.
L’orizzonte culturale di questi insediamenti si amplia. Non c’è più solo caccia e raccolta, ma organizzazione collettiva: qualcuno semina, altri sorvegliano le mandrie, altri ancora si specializzano nel vasellame o nella lavorazione dei tessuti. Il villaggio diventa un microcosmo stabile, con ruoli sociali emergenti.
A Piazza d’armi, grazie alla posizione dominante, si controllano le rotte di transito verso il Tevere, già cruciale per scambi e alleanze. Un’esistenza nomade ha ceduto il passo a un tempo nuovo. È la prima scintilla della lunga storia degli etruschi di Veio.
Alla metà del II millennio a.C. la valle del Tevere si trasforma in un crocevia di innovazioni. Arriva il bronzo, una lega di rame e stagno che rivoluziona la tecnologia: più resistente del rame, più efficace della pietra. Il nuovo metallo rende obsoleta la selce e apre la strada a strumenti e macchine mai visti prima.
Nelle mani dei contadini compaiono aratri con vomeri in bronzo, che fendono la terra con precisione. I vasai usano il tornio; i forni chiusi raggiungono alte temperature; i carri a ruote migliorano i trasporti. La rivoluzione agricola è ormai consolidata: i cereali si coltivano in abbondanza, tanto da richiedere granai per lo stoccaggio.
Nel paesaggio compaiono canali e piccole dighe: servono a drenare, irrigare, difendere i campi dalle piene improvvise del Tevere. L’agricoltura intensiva genera eccedenze e con esse, anche i primi scambi tra villaggi.
Ma la vera rivoluzione è sociale: il villaggio si organizza attorno alla terra. Il capo non è più solo un guerriero, ma un amministratore. Pianifica i cicli agrari, gestisce le scorte, decide quante sementi mettere da parte per la semina successiva. Ad assisterlo in queste decisioni, probabilmente, opera già un consiglio di anziani. Ogni comunità ha la sua capanna-assemblea, dove si discute e si decide insieme.
Nel 2008, su via delle Idrovore della Magliana, sulla riva del Tevere, gli archeologi riportano alla luce un ingegnoso sistema di canalette, che dà forma plastica alla nuova società del Bronzo. Le canalette servono sia a distribuire l’acqua che a smaltire le piene.
Ma è sul fondo di una di queste canalette che affiora una piccola meraviglia: un accumulo di vasi bruniti, decorati con incisioni geometriche tipiche del Bronzo medio. È un tesoro nascosto o un magazzino collegato alla bottega di un vasaio? Forse entrambe le cose.
Sulla riva, in quel punto di passaggi continui di varia umanità in risalita del Tevere, probabilmente lavora un vasaio. I suoi affari prosperano, il magazzino è ricco. In un’epoca di scambi e ricchezze nascenti, nascondere le scorte agli occhi dei predoni diventa così un atto di prudenza. E nascondere i vasi sotto il pelo dell’acqua, sul fondo di una canaletta, è un colpo di genio. È una società arguta, quella del Bronzo. Ha una spiccata attitudine a comprendere in anticipo ciò che sta per accadere, anche se gli occhi ancora non lo vedono.
Gli archeologi sono abbastanza sicuri del fatto che poco più a nord della bottega del vasaio, sul terrazzamento naturale di Montecucco, a 60 metri di altezza sul livello del mare, sia esistito un villaggio protostorico.
L’esistenza del villaggio deve essersi protratta nel tempo, forse fino al Bronzo recente (1350-1150 a.C.).
Possiamo provare a immaginare questo villaggio, sulla base di ritrovamenti coevi. Alla sommità di Montecucco la comunità accumula i raccolti, proteggendoli dalle esuberanze del Tevere; custodisce le sementi e prepara i beni da scambiare sulla riva del fiume. Il Tevere ormai è diventato una “strada liquida”: alimenta passaggi, scambi commerciali e di idee; è la base di una stabilità sociale di villaggi aperti, pronti ad interagire col mondo.
Il villaggio di Montecucco doveva avere delle forme di difesa collettiva: fossati scavati nella roccia di tufo, terrapieni con palizzate, portali in legno per controllare gli accessi. Montecucco, con la sua posizione dominante e la scarpata naturale a protezione, sembra nato apposta per trasformarsi in una piccola fortezza.
All’interno avremmo trovato capanne ellittiche o circolari, coperte di paglia e argilla, con un focolare centrale, alla sommità un comignolo-lucernario e finestrelle alle pareti.
Doveva esserci anche la capanna comune, spazio decisionale e sacrale insieme, dove all’occorrenza si custodiscono anche i beni preziosi e gli oggetti in bronzo, acquistati dai mercanti-navigatori del Tevere: le innovative spade a lingua di carpa, i pugnali a doppio taglio, le punte di lancia in bronzo stagionato.
L’indagine archeologica sul sito è stata solo sommaria, e non si è arrivati al punto di ritrovare la necropoli. Ritrovarla sarebbe importante: se ne emergessero tombe con “urne biconiche” e resti di defunti incinerati, potremmo parlare già dell’inizio di una nuova cultura, la cultura proto-villanoviana. La cultura proto-villanoviana è una società avanzata basata sull’artigianato e gli scambi, con le capanne dei villaggi disposte già con un certo ordine e una difesa comune strutturata. Una società che comincia già a discutere di politica: è la prima ombra di quella civiltà etrusca che fiorirà a breve.
Nelle fasi finali dell’età del Bronzo, tra il XII e il IX secolo a.C., la dieta delle comunità dell’Italia tirrenica subisce una trasformazione decisiva: la carne, per secoli alimento principale, lascia spazio a una crescente quantità di cereali, legumi e vegetali. Questa svolta alimentare impone di integrare minerali essenziali carenti nei vegetali, primo fra tutti il sale, divenuto prezioso quanto vitale. Plinio il Vecchio, secoli dopo, ribadirà la sua importanza con le parole nihil utilius sole et sale: nulla è più necessario del sole e del sale. E proprio per quelle genti del Bronzo finale, il sale significa vita, conservazione, purificazione, oltre a rivestire un valore sacro nei riti religiosi, come la mola salsa mescolata al farro e offerta agli dèi.
Sulla fascia costiera a nord della foce del Tevere, il sale è facilmente reperibile grazie ai bacini salmastri naturali. Dove oggi si trova Maccarese, in età del Bronzo sorge un lago costiero di acqua dolce, alimentato da sorgenti e separato dal mare da dune sabbiose. Con il tempo, violente mareggiate o interventi umani trasformano questo specchio d’acqua in una laguna salina, collegata al mare attraverso un istmo. Qui, grazie al sole e al vento, il sale cristallizza spontaneamente, mentre la foce dell’Arrone, più a nord, completa il sistema idrico che alimenta questi stagni.
A partire dal IX secolo a.C., le comunità della cultura protovillanoviana e poi villanoviana iniziano a frequentare stabilmente questi stagni, organizzando la raccolta del sale con vasche rettangolari e bassi muretti per controllarne l’evaporazione. Nasce un’attività redditizia e strategica, capace di garantire ricchezza e potere: il sale è richiesto tanto nell’entroterra quanto nei centri etruschi in ascesa.
Intanto, sulle alture di Veio, l’abitato di Piazza d’Armi evolve da villaggio fortificato a polo di scambi e innovazioni artigianali. Qui sopravvivono le pratiche funerarie protovillanoviane, con urne a capanna o biconiche per le ceneri dei defunti, segno di continuità ma anche di mutamento culturale: la cremazione sostituisce lentamente l’inumazione, rivelando una nuova visione dell’aldilà.
Grazie al commercio del sale, Veio intesse legami con i proto-latini dei Colli Albani e con i popoli appenninici, favorendo alleanze e contatti culturali. In questo paesaggio di lagune salmastre e paludi bonificate si consolidano nuove opportunità, con una cultura materiale arricchita dagli influssi portati dal traffico sul Tevere e sul Tirreno. Dentro questa rete di riti, commerci e trasformazioni, i Rasna pongono le basi della loro futura civiltà urbana, destinata a fiorire di lì a poco.
(articolo aggiornato il 7 Luglio 2025)