Roma, 509 a.C. La monarchia etrusca cade. Lucio Tarquinio il Superbo, l’ultimo re, è cacciato. Sulle sue rovine nasce una nuova istituzione: la Res publica. I comizi centuriati eleggono due consoli: Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto, che giura di non tollerare mai più un re a Roma.
Ma l’ex sovrano non si arrende. Cerca alleati per riconquistare il potere. Il primo è Lars Porsenna, lucumone di Chiusi. Nel 508 a.C., il suo esercito giunge alle porte di Roma: la città è assediata.
In questo clima di tensione emerge Gaio Muzio, giovane patrizio dei Mucii, proprietari dei Prata Mucia, ampie tenute nel Trans Tiberim, oltre il Ponte Sublicio. La sua famiglia è legata ai traffici fluviali e al patriziato del Palatino. Una restaurazione monarchica significherebbe la fine del suo mondo.
Muzio decide di colpire al cuore il nemico. Travestito da etrusco, si introduce nell’accampamento avversario. Durante la distribuzione della paga, tenta di assassinare Porsenna, ma sbaglia: uccide lo scriba. Catturato, viene condotto davanti al lucumone. E lì pronuncia parole memorabili: “Volevo uccidere te, Porsenna. La mia mano ha fallito, e io la punisco.” Senza esitazione, tende la mano destra su un braciere e la lascia bruciare.
Porsenna è colpito. Muzio rincara: “Dopo di me, altri trecento giovani hanno giurato lo stesso.” È una menzogna, ma l’audacia impressiona il re. Porsenna sceglie la via della pace. Ritira l’esercito e firma con Roma il Trattato del Gianicolo: ai Romani va il colle Gianicolo e le saline del Tevere, agli Etruschi il resto della riva destra. Da allora, Muzio è detto Scevola, il mancino.
Nel frattempo, Trastevere si trasforma. La presenza romana favorisce scambi e insediamenti: arrivano marinai, mercanti, immigrati da Oriente. Sulle alture del Gianicolo sorge un santuario siriaco, primo culto straniero ufficialmente accolto in città.
Ma l’ombra di Tarquinio incombe ancora. Rifugiatosi a Tuscolo, convince Ottavio Mamilio a guidare una lega di città latine contro Roma. A nord, Veio minaccia i confini. A sud, una coalizione di trentacinque città si prepara allo scontro.
Nel 507 a.C., lo scontro con Veio esplode nella Silva Arsia, lungo l’attuale via Cassia. Il console Publio Valerio Publicola introduce una nuova disposizione della fanteria in quadrati e ottiene la vittoria.
Lo scontro decisivo avviene nel 496 a.C. al lago Regillo, nei pressi dei Colli Albani. Il Senato affida pieni poteri al dictator Aulo Postumio Albo. Tarquinio, ormai anziano, guida un ultimo tentativo. La battaglia è cruenta. La leggenda vuole che Castore e Polluce, i Dioscuri, appaiano in sella a cavalli bianchi a guidare la cavalleria romana. Roma trionfa. Tarquinio viene ferito e muore poco dopo. La monarchia etrusca è finita.
Ma la Repubblica è tutt’altro che pacificata. La crisi economica pesa sui plebei. Fame, debiti e nexum — la schiavitù per insolvenza — esasperano le tensioni sociali. Secondo Livio, lo Stato tenta di controllare il mercato del sale “sottraendolo all’arbitrio dei privati”, ma è un palliativo.
Nel 494 a.C., la plebe insorge. Abbandona Roma e si ritira sul Mons Sacer — secondo altri sull’Aventino —: è la prima secessione plebea. La città si svuota, il Senato è paralizzato. Serve un mediatore.
È scelto Menenio Agrippa, uomo del popolo e abile oratore. Racconta la parabola del ventre e delle membra: le membra si ribellano al ventre, che pare inerte, ma senza di esso anche loro si indeboliscono. Così è Roma: patrizi e plebei sono parti di un unico corpo.
Il messaggio colpisce. I plebei rientrano e ottengono una conquista storica: la creazione dei Tribuni della plebe, magistrati inviolabili con potere di intercessio, il veto sulle decisioni del Senato. È la nascita di un nuovo potere, popolare, destinato a cambiare per sempre il corso della Repubblica.
La prima guerra (483-474 a.C.): la Gens Fabia e la battaglia del Cremera
Veio, la grande rivale etrusca di Roma, approfitta del momento. Le tensioni tra patrizi e plebei lasciano la città vulnerabile. Tra il 483 e il 482 a.C., iniziano incursioni lungo il confine romano: scorribande, razzie, rapide azioni di disturbo. Non è guerra dichiarata, ma logoramento continuo. I combattimenti si arrestano al tramonto. Spesso, al termine, le due parti contano i morti, come in un rituale.
Una leggenda attribuisce la svolta al dio Silvano. Dalle grotte del Montecucco — antro sacro tra le selve a nord del Tevere — si alza il suo responso: “Victoria Romanis.” Gli Etruschi, spaventati, si ritirano. Ma la verità è un’altra: nel 482 a.C., il console Quinto Fabio Vibulano, della potente gens Fabia, decide di reagire.
Veio ha appena compiuto un’umiliante incursione. Vibulano tenta un contrattacco, ma è respinto. Chiede rinforzi. Roma esita: il Senato teme di sguarnire i confini con Equi e Volsci. Allora nasce un’iniziativa senza precedenti: la guerra privata dei Fabii, il bellum privatum, come la chiama Livio. Il Senato autorizza: i Fabii potranno combattere a nome della Repubblica, ma senza fondi né truppe pubbliche.
Così, 306 uomini adulti della gens Fabia partono da Roma. Attraversano il Tevere, risalgono la valle del Cremera, oggi incastonata tra le colline a nord-ovest, e costruiscono un fortino a pochi chilometri da Veio. È una guerra fatta di imboscate, saccheggi, campi bruciati. Nessuno scontro aperto. È guerriglia, calcolo, resistenza.
Nel 477 a.C., i Veienti cambiano strategia. Mettono in scena un’esca: un grande gregge pascola nei pressi del fortino. I Fabii, credendo a un’opportunità, escono in campo aperto. È una trappola. Le truppe etrusche, appostate tra le gole del Cremera, li circondano.
La battaglia è disperata. I Fabii si ritirano su una collina. Resistono, contrattaccano, ma i nemici occupano le alture e, dall’alto, sferrano l’assalto finale. Uno a uno, i Fabii cadono. Tutti. Tranne uno: Quinto Fabio Vibulano, troppo giovane per combattere.
La notizia scuote Roma. La gens Fabia, una delle famiglie fondatrici della Repubblica, è quasi annientata. I Veienti passano il Cremera, riprendono il Gianicolo, antico avamposto etrusco, e avanzano fin sotto le mura della città. Per un istante, Roma vacilla.
Ma il giovane Vibulano reagisce. Raccoglie uomini, guida un contrattacco audace. Colpisce il nemico sul Gianicolo e lo respinge oltre il fiume. Roma è salva. Con la perdita del Gianicolo, Veio cede anche il controllo delle vie fluviali verso il medio Tevere. I traffici si spostano a nord-ovest, lungo torrenti come il Rio Galeria e il Rio Affogalasino, che sfocia proprio sotto le grotte del Montecucco. In quelle cavità profonde si conservano merci e raccolti diretti verso Veio.
Nel 475 a.C., Veio tenta un’ultima offensiva, alleandosi ai Sabini. Ma Roma è pronta. La cavalleria, guidata da Publio Valerio Publicola, infligge una sconfitta decisiva. È il colpo finale.
L’anno successivo, nel 474 a.C., Veio chiede la pace. Si firma una tregua di 40 anni. Per la prima volta, il fronte etrusco tace. L’attenzione romana si sposta verso sud, contro Equi e Volsci.
Ma la memoria del Cremera non si spegne. Resta impressa come un simbolo: trecento uomini, una sola famiglia, contro un’intera città. È l’epopea tragica dei Fabii. Da allora, il loro nome incarna il valore, la dedizione, il sacrificio. E Roma, da quell’eccidio, esce più forte.
La dittatura dei Decemviri e le Leggi delle Dodici tavole
Siamo nel cuore del V secolo a.C. Roma è scossa da tensioni sociali e instabilità politica. Nel 460 a.C., un gruppo armato guidato dal sabino Appio Erdonio occupa con un colpo di mano il Campidoglio, coinvolgendo servi, schiavi ed esuli. Il console Valerio Publicola riconquista l’acropoli, ma muore negli scontri. La città è ferita, la plebe inquieta, il clima teso.
Due anni dopo, nel 458 a.C., il Senato approva un provvedimento importante: la Lex Aternia Tarpeia. Le multe, fino ad allora espresse in capi di bestiame, vengono convertite in valori di bronzo. È un passo verso un sistema giuridico meno arbitrario, più equo. Ma il vero cambiamento nasce da una richiesta antica e pressante: avere leggi scritte, certe, valide per tutti.
I plebei insistono. Non vogliono più sottostare all’arbitrio dei magistrati patrizi. Pretendono chiarezza: sapere cosa è lecito, cosa è punibile. Dopo lunghe trattative, i patrizi cedono. Nel 451 a.C. si sospendono le magistrature ordinarie e si nomina un collegio straordinario di dieci uomini: i Decemviri legibus scribundis. Hanno pieni poteri per redigere un codice comune. Tutti patrizi, per ora.
In un solo anno, i decemviri redigono dieci tavole di leggi, approvate dai comizi centuriati. Le norme vengono incise su tavole lignee ed esposte nel Foro. Per la prima volta, ogni cittadino può conoscere le leggi che lo governano. Ma l’opera è incompleta.
Nel 450 a.C. si elegge un secondo collegio. Per contenere le tensioni, ne fanno parte anche alcuni plebei. Tra i patrizi rientra Appio Claudio, figura ambigua e carismatica. Sotto la sua influenza, vengono completate le ultime due tavole. Ma qualcosa cambia. Alcune leggi appaiono ingiuste, squilibrate. Alla scadenza del mandato, i decemviri si rifiutano di lasciare il potere. Nasce una nuova tirannide.
Il malcontento cresce. La plebe, esasperata, abbandona di nuovo la città e si rifugia sull’Aventino: è la seconda secessione plebea. La pressione è forte. I decemviri sono costretti a dimettersi. Le magistrature tradizionali vengono ristabilite.
Nel 449 a.C., i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato promulgano le Leges Valeriae-Horatiae. Sono riforme fondamentali. Si ripristina la provocatio ad populum: ogni cittadino può appellarsi al popolo contro una sentenza capitale. Si riafferma l’inviolabilità dei tribuni della plebe, garantita dalla sacertas, una maledizione sacra che colpisce chi li aggredisce. E, per la prima volta, si riconosce valore di legge ai plebiscita, i decreti votati dalla sola assemblea della plebe.
Le XII Tavole vengono completate. Incise su bronzo, sono affisse nel Foro, ben visibili. Ogni ragazzo romano le studia e le recita a memoria. Il contenuto, oggi perduto quasi interamente, copre ogni ambito del diritto: penale, civile, familiare, successorio, religioso.
Sono leggi dure, ma limpide. La Tavola III autorizza il creditore a ridurre in schiavitù il debitore insolvente. La Tavola IV afferma: Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto — “Se il padre vende il figlio per tre volte, il figlio sia libero dalla sua potestà”.
Per la prima volta, la legge è pubblica, accessibile, valida per tutti. Il cittadino non teme più l’arbitrio. Roma è finalmente governata dal diritto.
Nel 390 a.C., durante il sacco di Roma ad opera dei Galli Senoni di Brenno, le tavole bronzee vengono distrutte nel fuoco. Ma il loro spirito sopravvive. Le XII Tavole restano il fondamento di tutto il diritto romano. E la Repubblica, grazie a esse, compie il primo, decisivo passo verso l’equità giuridica.
Cincinnato salva Roma, poi torna a fare l’agricoltore
Siamo nel V secolo a.C. Sulla riva destra del Tevere, poco oltre il porto fluviale, si estendono i Prata Quinctia: quattro iugeri di terreno agricolo, l’equivalente di quattro giornate di lavoro per una coppia di buoi. È la modesta proprietà di Lucio Quinzio Cincinnato, patrizio romano dalla fama integerrima. Livio scrive: “Spes unica imperii Populi Romani trans Tiberim… quatuor iugera colebat agrum.” L’unica speranza di Roma lavora la terra con le sue mani, dove sorgeranno più tardi i Navalia.
Cincinnato nasce attorno al 520 a.C. e vive fino al 430 a.C., eccezionale longevità per l’epoca. Uomo politico abile, è prima di tutto un contadino. Accetta il potere solo quando la Repubblica lo chiama. E quando Roma è in pericolo, risponde.
Nel 458 a.C., gli Equi e i Volsci tendono un agguato a un esercito consolare, intrappolandolo sui monti Algidi, tra i rilievi laziali. Roma è in allarme. Il Senato ricorre alla dittatura. I messi trovano Cincinnato chino sul campo, tunica da lavoro e vanga in mano. Lo informano della nomina. È così povero che lo Stato paga persino il traghetto per riportarlo in città.
Cincinnato si lava, indossa la toga magistrale, riceve le insegne e assume il comando. Nella stessa notte organizza l’esercito. All’alba parte verso il monte Algido. Coordina un attacco su due fronti: i soldati romani assediati escono, lui li assale dall’esterno. Gli Equi, presi tra due fuochi, cedono. La vittoria è completa. Impone loro di passare sub iugum: sotto un giogo di lance, simbolo di resa assoluta.
Potrebbe restare in carica sei mesi, ma dopo appena quindici giorni depone la dittatura e torna a zappare il suo campo. È il modello del triumphalis agricola, il contadino trionfatore che salva la patria e si ritira senza clamore.
Nel 445 a.C., le tensioni sociali riprendono. Il tribuno Gaio Canuleio propone una riforma rivoluzionaria: abolire il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. La Lex Canuleia viene approvata. Il conubium è ripristinato. Le due classi possono unirsi legalmente, anche nelle famiglie.
L’accesso al consolato, però, resta precluso ai plebei. Si adotta un compromesso. Dal 444 a.C., in alternativa ai consoli, si eleggono tribuni militari con potestà consolare. La carica è teoricamente aperta anche ai plebei, ma per decenni sarà monopolio patrizio. Tuttavia, si crea un meccanismo flessibile: nei momenti di tensione si preferiscono i tribuni militari, nei periodi stabili si torna ai consoli. È un equilibrio instabile, ma evita rotture.
Nel 443 a.C., nasce la Censura. I consoli, impegnati sul fronte militare, non possono più curare il censimento e il controllo dei costumi. Il compito passa a due censori, eletti ogni cinque anni, in carica per diciotto mesi. I primi sono patrizi. La carica assume da subito valore morale oltre che politico: i censori possono espellere dal Senato chi vive in modo indegno.
Intanto, qualcosa cambia nella società romana. Alcuni plebei, arricchiti dal commercio e dalla guerra, entrano nell’ordo equester. Comandano truppe, amministrano terre, accedono alle magistrature minori. La Lex Canuleia, l’introduzione dei tribuni militari e la nascita della Censura segnano l’inizio di un lento ma irreversibile percorso verso l’equità giuridica.
Cincinnato, ormai anziano, osserva questi mutamenti con la calma di chi ha già visto tutto. Resta il simbolo della virtù romana: sobrietà, disciplina, rifiuto del potere per il potere. Quando, secoli dopo, la Repubblica sarà lacerata da guerre civili e ambizione personale, molti si volteranno indietro. E si chiederanno: dove sono finiti gli uomini come Cincinnato?
(articolo aggiornato il 24 Agosto 2025)



