L’Heidelbergensis di Cecanibbio e i Neanderthal “romani”

325.000 anni fa. Ci troviamo, allora come oggi, in aperta campagna, tra la via Aurelia e via di Boccea, nel podere agricolo “Polledrara di Cecanibbio”. La pianura ondulata è attraversata da corsi d’acqua capricciosi, che convogliano tutti in un profondo canale. L’orizzonte è incorniciato da rilievi vulcanici ancora in piena attività.

È qui che avviene un dramma della preistoria. Preceduto da un cupo rombo, all’improvviso un vulcano incomincia a eruttare, con una potenza distruttiva senza pari. La colata di fango incandescente, densa e rovente, si riversa sul fondovalle e nel canale. All’istante le polveri piroclastiche bloccano ogni forma di vita, seppellendola e cristallizzandone gli ultimi istanti cone una fotografia istantanea. La Polledrara di Cecanibbio è una “Pompei del Pleistocene”.

Questi sedimenti, indagati a partire dal 1984, oggi restituiscono i resti di una fauna spettacolare: il possente uro (Bos primigenius), cavalli selvatici, cervi eleganti, rinoceronti delle steppe, lepri, scimmie, e perfino il più antico gatto selvatico d’Italia (Felis silvestris). Bloccati e sorpresi dal fango eruttivo, mentre cercavano refrigerio sul bordo di quell’antico canale.

Ma a dominare la scena è lui, il gigante della savana europea: il Palaeoloxodon antiquus, l’elefante dalle zanne dritte. Nel 2006 gli archeologi riportano alla luce un esemplare completo, con le ossa ancora in connessione anatomica perfetta, imprigionato per sempre nella posizione del suo ultimo respiro.

Queste scene drammatiche, in un mondo preistorico di vulcani attivi, non erano rare. Sono stati trovati giacimenti ossei di fauna intrappolata da ceneri vulcaniche in ogni parte del mondo. Esse hanno dato vita a una leggenda suggestiva, quella dei “cimiteri degli elefanti”.

Eppure, per i cimiteri degli elefanti c’è anche un’altra spiegazione, che non chiama in causa le ceneri di un vulcano. Forse queste enormi creature morivano qui naturalmente, intrappolate nelle sabbie mobili del canale; oppure venivano sospinte lì da abili uomini predatori, conoscitori dei luoghi e capaci di trasformare il fango in una trappola.

Sembra confermare questa ipotesi il ritrovamento alla Polledrara di altri due scheletri di Palaeoloxodon, molto diversi dal primo. Le loro spoglie appaiono smembrate, con segni di frattura sulle ossa lunghe: un gruppo di ominidi predatori li ha scarnificati per estrarre il midollo dalle loro ossa, giusto un attimo prima che le ceneri del vulcano cristallizzassero la scena.

— Homo Heidelbergensis: l’erede di Erectus

Ma chi è l’uomo che si aggira tra questi giganti? Oggi conosciamo il suo nome: Homo heidelbergensis.

La Polledrara ci ha restituito 600 strumenti in pietra e osso appartenuti a Heidelbergensis. Si distinguono utensili raffinati, segno di una cultura materiale molto più evoluta delle amigdale bifacciali di Homo Erectus.

Heidelbergenis ha maturato tecniche di caccia evolute. Heidelbergensis non affronta le prede in campo aperto, ma al contrario le insegue tallonandole per giorni, fino a sfiancarle. Poi le sospinge fino alle sabbie mobili del canale, e attendono che l’animale cada in una trappola naturale, inghiottito dal fango. Poi Heidelbergensis incomincia la macellazione della carcassa, con metodica organizzazione.

Nel 2011 c’è stata una scoperta dirimente: un dente da latte, appartenenuto ad un bambino di 5-10 anni, ha confermato che la specie umana insediata alla Polledrara è proprio Heidelbergensis. E ha confermato anche che alla Polledrara vivevano anche famiglie, non solo cacciatori adulti.

Homo heidelbergensis, considerato un’evoluzione dell’ominide Erectus, è alto circa 170 cm e possiede già dei tratti fisici e comportamentali che lo accomunano all’uomo moderno. Heidelbergensis ha un’intelligenza sorprendente. Probabilmente sa comunicare con un linguaggio già articolato, grazie all’osso ioide assente negli ominidi, e sa coordinare la caccia e tramandare conoscenze preziose ai più giovani.

È facile immaginare queste comunità intente a suddividere il bottino, a discutere su come inseguire la prossima mandria, a raccontarsi storie intorno al fuoco. I resti archeologici ci parlano di gruppi umani coesi, capace di condividere strategie e di sfruttare al meglio le risorse. Homo heidelbergensis è ingegnoso, sociale e determinato a sopravvivere alle sfide di un mondo ostile.

— Cercando il Neanderthal: le indagini di Torre in Pietra e Castel Malnome

Il tempo scorre, e arriviamo così a circa 200.000 anni fa. Homo heidelbergensis lascia spazio al suo erede più celebre: Homo neanderthalensis.

È un passaggio di testimone lento, quello tra Heidelbergensis e Neanderthal. Avviene tra onde di gelo e fasi calde interglaciali. A Torre in Pietra, lungo la costa laziale, un’indagine del 1954 ha rivelato la presenza di un insediamento frequentato dai primi Neanderthal.

Torre in Pietra non ha restituito ossa o denti neanderthaliani, ma tutto qui ci parla della loro cultura materiale. È una comunità pacifica, che pratica la caccia in maniera meno aggressiva rispetto a Cecanibbio. La dieta dei Neanderthal di Torre in Pietra si integra con bacche, radici, vegetali, sfruttando un paesaggio più dolce grazie al clima temperato dal mare. Il sito ha restituito oltre 700 strumenti in scaglia e osso (lame, aghi e punteruoli), assai simili a quelli rinvenuti nella celebre cava di Saccopastore, dove sono emerse ossa e crani di Neanderthal.

Un’altra indagine si è svolta invece a più riprese a Castel Malnome, a Ponte Galeria, purtroppo senza risultati eclatanti. Il sito indagato è caratterizzato da una frequentazione umana molto diluita nel tempo. Gli strumenti litici ritrovati sono pre-neanderthaliani, e risalgono probabilmente a Heidelbergensis. Ma l’interesse degni antropologi era orientato altrove: era tutto per gli ammassi di pietre. Gli studiosi cercavano infatti qualcosa di nuovo: i segni della “pïetas”, la pietà dei defunti. I Neanderthal proteggono i corpi dei defunti, ricoprendoli con grandi massi, con depositi simili a quelli osservati a Castel Malnome. Le pietre sono state rimosse ma tuttavia non hanno restituito ossa umane.

Rimane però l’emozione di questi gesti materiali, da cui emergono le prime tracce di un pensiero religioso, e forse anche della credenza in un aldilà. L’umanità Neanderthal non si limita a cacciare e nutrirsi, ma comincia a interrogarsi sul senso alla vita e sulla fine della vita, ponendo le basi di un sentire profondamente umano.

— Gli ultimi Neanderthal: maestri di resilienza

Anche in località Casal dei Pazzi, lungo l’Aniene, sono emersi, accanto a resti ossei di elefanti, rinoceronti e ippopotami, gli utensili in selce di Neanderthal di 200.000 anni fa, vissuto in un clima inaspettatamente rigido. Qui si cuoce la carne intorno a fuochi alimentati con legna di foresta, mentre piccoli gruppi si stringono per affrontare il freddo. Le mani abili scheggiano bifacciali e raschiatoi, i racconti serali tramandano memorie di cacce e leggende, la comunità si compatta davanti alle avversità.

Arriviamo così al Pleistocene superiore, circa 130.000 anni fa. Il clima del Lazio gioca ancora con gli estremi, con ondate di gelo particolarmente severe. I Neanderthal debbono adattarsi, diventare anzi maestri di adattamento. La glaciazione di Würm, 70.000 anni fa, rende la sopravvivenza ancora più dura, ma i Neanderthal non si arrendono: affinano i loro strumenti, rendendoli più precisi, più sottili, più adatti a trattare pelli, ossa e fibre vegetali. I Neanderthal mostrano la loro resilienza: sfruttano le lagune ricche di pesci e uccelli migratori.

La Grotta Guattari, sul Monte Circeo, ci ha restituito le spoglie degli ultimi Neanderthal “romani”, datate a 64.000 anni fa. Forse, tra quei focolari in grotta, nasce la prima scintilla di ciò che diventeremo: la capacità di raccontare storie, di proteggere i più deboli, di restare uniti.


(articolo aggiornato il 29 Giugno 2025)