Al pianterreno del Casale Jacobini, a metà Ottocento, si trova una posta per il cambio dei cavalli lungo la via Portuense, mentre al piano superiore si trova una celebre osteria: l’Osteria del Cardinale. Una ripida rampa a scalini, che esiste ancora oggi, mette a dura prova gli avventori che abbiano ecceduto nel bere.

L’osteria si rifornisce dalla Vigna del Ciacchero, un vigneto della tenuta Jacobini esposto a mezzogiorno, dove si coltiva ancora il superbo vino aleatico di Papa Leone, che fa da vino da taglio per insaporire le deboli uve locali.

L’intera produzione vinaria della tenuta è stivata in grandi barili sotto Casale Jacobini, in una fitta rete di cantine e gallerie scavate nel tufo. Viene avviata alla vendita nei mercati urbani su carri a vino condotti da muli; oppure viene consumato sul posto, all’Osteria del Cardinale, “a coppelle”, in un orario compreso tra i due rintocchi dell’orologio del Casale Jacobini. Si poteva accedere all’osteria dopo i Vespri (le funzioni religiose della sera) e c’è l’obbligo di rincasare dopo il rintocco della mezzanotte.

L’osteria del Cardinale, popolarissima, finisce così per intercettare la varia umanità in transito lungo la via Portuense, che andiamo a conoscere. Non è raro incontrarvi i “ciociari”, i pastori in transumanza provenienti dalla Ciociaria e molto più spesso dal più lontano Abruzzo. Riconoscibili per l’abito e per le calzature a ciocia, i pastori fanno un gran vociare nell’osteria e, dopo aver bevuto molte coppelle di vino, sono soliti “poetare a braccio” in accese gare di stornelli.

La poesia a braccio, a dispetto del nome, è un genere letterario niente affatto improvvisato, ma segue degli schemi codificati basati sulla forma poetica dello stornello romanesco. Nello stornello ci sono due cantori, che si alternano (si “stornano”) nella declamazione di una strofa composta di tre versi. Il primo cantore chiama il verso d’apertura, mentre il secondo cantore gli risponde con i due versi a storno, lasciati all’improvvisazione. Il verso d’apertura, molto breve (è un quinario, cioè un verso di sole cinque sillabe con l’accento tonico sulla quarta), termina con un’invocazione, con cui dovranno rimare i due versi endecasillabi a storno (uno in assonzanza, uno in rima baciata). Un esempio celebre di stornello, tratto dalla Cavalleria rusticana, è il seguente: “Fior di giaggiolo / Gli angeli belli stanno a mille in cielo / ma bello come lui ce n’è uno solo”.

Terminata la terzina, i ruoli di primo e secondo cantore si invertono: uno lancia una nuova invocazione e l’altro gli risponde a storno. Il rimando può andare avanti per varie strofe, finché uno dei due si arrende all’altro, incapace di trovare la giusta rima.

Le invocazioni seguono precise tematiche (in genere fiori, ma anche la buona tavola, i nomi di paesi e tutto il resto), mentre i versi a storno ne seguono altre: in genere la poesia amorosa, ma anche la satira o gli “stornelli a dispetto”, in cui i due cantori animano una vera e propria competizione dialettica, cantandosi insulti di santa ragione.

Inoltre, la gara di stornelli è solita iniziare con una presentazione di ciascun contendente/cantore, con una poesia autobiografica con tanto di generalità, professione e carattere del cantore. Un esempio molto semplice è il seguente: “Io son [nome] e col bicchiere in mano / mando saluti a tutti i presenti / Pastori nati nell’alto Aquilano / tra luoghi ameni e limpide sorgenti / Che poi emigrati nell’Agro romano / sono in custodia dei lamenti armenti / Sperate come me giorni beati / di tornare presto dove siam nati”.

Oltre ai Ciociari, fino al 1866 è possibile incontrare all’Osteria del Cardinale anche un altro genere di avventori: gli Zouaves – Zuavi in italiano –, soldati mercenari al servizio del Papa Re, accampati nella vicina Vigna Santucci, sulla destra della Portuense, proprio di fronte al Casale Jacobini.

In quell’anno 1866 anzi si verifica in fatto di donne e di coltelli, la cui cronaca ci è riferito da Stelvio Coggiatti nella Strenna dei Romanisti (1972). La vicenda innescherà una sanguinosa faida tra i popolani di Vigna Jacobini e i gli Zuavi pontifici. Sullo sfondo lo scenario complesso degli scontri tra patrioti, favorevoli all’unità d’Italia, e i lealisti, i sostenitori di Pio IX, l’ultimo papa re.

Gli Zouaves sono arrivati al Portuense da molto lontano. Sono in origine un’unità di fanteria berbera, regolarizzata nell’esercito francese dal 1830 e distintasi eroicamente a Algeri, Sebastopoli, Balaclava, e Palestro, nella Seconda guerra d’Indipendenza italiana. Dal 1860 gli Zouaves sono sotto ingaggio a Roma, al comando di La Morcière e De Charette. Gli zuavi di stanza a Roma sono in prevalenza francesi, belgi, americani, canadesi e irlandesi.

Sono conosciuti dal popolo per una certa grevità di costumi e guasconeria, ma animati da fede sincera e da una assoluta dedizione alla monarchia papalina. Senza conoscere fatica lavorano alla costruzione di trincee contro l’odiato Garibaldi e al tramonto è possibile vederli rincasare alla villa-caserma dei Santucci lungo via Portuense, cantando con enfasi i versi finali del Noi vogliam Dio, riferiti a Papa Pio IX: “La corona che cinge sua fronte / non si strappa la regge il Signor!”.

Il racconto popolare vuole però che questi giovani dai capelli e occhi chiari, dalle uniformi sgargianti con i calzoni a sbuffo, la cintura di tela, la giacca corta e il fez, abbiano subito infiammato i cuori delle ragazze portuensi. E pare anche che qualche zuavo, forse proprio dopo aver ecceduto nel vino all’Osteria del Cardinale, abbia anche ecceduto nelle galanterie. Pare insomma che alla fine sia arrivata qualche gravidanza inattesa, rifiutandosi poi di convolare a “nozze riparatrici”.

A quel punto i congiunti delle ragazze offese pensano di lavare l’affronto secondo la consuetudine cavalleresca, cioè sfidando l’interessato in un duello. Ma il “pubblico ristoro dell’affronto” viene precluso, perché con Garibaldi alle porte e la Sede pontificia traballante, gli Zuavi sono l’ultima milizia effettiva di Santa Romana Chiesa: eliminare anche uno solo tra gli zuavi avrebbe avuto un pericoloso risvolto antinazionale, e con ogni probabilità avrebbe esposto la tenuta Jacobini alle rappresaglie di un potere temporale in disfacimento ma non ancora sconfitto.

La contromossa degli uomini di Vigna Jacobini, comunque, non tarda a arrivare.

Si decide di saldare i conti in un’altra maniera: con l’“accoppamento”, cioè la pugnalata volante alle spalle, che è la punizione che la consuetudine riserva agli “infami” che si sottraggono alle regole della cavalleria. Segue la sparizione del corpo, senza lasciare traccia.

Per nascondere i corpi i popolani ricorrono ad un singolare stratagemma, che lascia supporre l’implicita approvazione dei signori Jacobini. “Poiché le rappresaglie militari non sono un’invenzione recente – scrive Stelvio Coggiatti – i gelosi vendicatori escogitano un momentaneo ma sicuro nascondiglio per i resti mortali di quei soldati, vincitori di battaglie amatorie ma caduti in azioni di rappresaglia”. Il nascondiglio sono le botti vuote: le salme vengono deposte sul fondo, e le botti sono ben allineate con le altre piene di buon vino, nelle cantine di Vigna Jacobini.


(articolo aggiornato il 4 Ottobre 2022)