È il momento di mettere da parte le certezze della Storia, per sviluppare un’ipotesi di studio. Stiamo cercando, sulla moderna via Portuense, il Kenotaphion di Acerronia: un monumento funerario dedicato alla devota schiava di Agrippina, morta per salvare la sua padrona da un’imboscata.

Andiamo con ordine. Questa ricerca incomincia per caso, con una tesi di laurea realizzata nel 2003 da uno studente di topografia antica alla Sapienza, Paolo Imperatori. Imperatori ha raccolto vecchi rapporti ispettivi della Soprintendenza, abbinando i luoghi del passato con i luoghi del presente.

Uno di questi rapporti, datato 18 febbraio 1910, ci porta a Vigna Gioacchini, presso l’odierna via Santorre di Santarosa. L’edificio principale della vigna, Casal Gioacchini, si presenta appena ristrutturato, tanto da apparire un edificio moderno. Eppure ­­– scrivono gli archeologi –, un’ala del casale ingloba strutture più antiche, della superficie di ben 96 metri quadrati: “A circa 300 metri dalla via Portuense vi è un avanzo di un monumento in muratura, a fine cortina con cordone di travertino, [cui è] addossato il fabbricato moderno di proprietà del Sig. Gioacchini Cesare”. Gli archeologi vi trovano un cippo sepolcrale con il nome di Fabia Helpis. Poco distante, nella casa colonica del Sig. Dazi, trovano un sarcofago strigilato e una testa di filosofo in marmo lunense: “Sesso virile, barba rasa scolpita molto bene, pettinatura molto elegante”.

Nulla di straordinario. Eppure, nella stessa la tesi di laurea, compare un secondo resoconto della stessa vicenda, molto diverso. Si tratta di un rapporto di polizia.

L’estensore è un investigatore sotto copertura, che si firma Professor Benedetto Maioletti. Proprio in quegli anni infatti la Polizia di Roma comincia a utilizzare una nuova tecnica, l’“investigazione en travesti”, che consente ai delegati di pubblica sicurezza di assumere identità fittizie. Questa tecnica raggiungerà il suo culmine una decina di anni dopo, con il celebre commissario Beppe Dosi.

Il nostro professore-poliziotto ha le dritte giuste, e arriva a Casal Gioacchini due settimane prima della Soprintendenza, il 2 febbraio 1910. Il professore intuisce subito di avere di fronte a sé qualcosa di importante. Si tratta infatti, scrive Maioletti, di un sepolcro a tempietto “della tipologia consimile al tempio del dio Rediculus presso l’Appia”, in voga a metà I secolo d.C. Le tombe di questo tipo hanno all’esterno una facciata a timpano triangolare sorretta da colonne; all’interno contengono due stanze: in basso la camera funeraria, vuota, e al di sopra la sala per l’agape, in cui gli amici del defunto si ritrovano periodicamente per banchettare in sua memoria. Maioletti non ha dubbi: si tratta di un kenotaphion, che in greco significa “tomba vuota”, un monumento dedicato a un illustre insepolto, deceduto per fatale incidente o per morte violenta.

Scoprire il nome dell’insepolto è un “giallo dentro il giallo”, di cui andremo ad occuparci a breve. Per ora però continuiamo a seguire i passi di Maioletti. Il suo rapporto contiene tre disegni accuratissimi: una planimetria, una sezione altimetrica e un rilievo delle murature, alte sei metri e mezzo e ornate “da una grande gola in pietra da taglio”, cioè un cordone di travertino a fare da marcapiano. Maioletti individua anche il grande pilastro centrale e i semi-pilastri addossati al perimetro, che gli permettono di ipotizzare l’esistenza di un solaio con volte ad arco, andato perduto. Così come è andata perduta la facciata con timpano e colonne.

E qui arriva la prima sorpresa: Maioletti entra nella casa colonica del signor Dazi e ritrova alcuni frammenti della facciata: rocchi di colonne e trabeazioni in marmo.

Iniziano gli interrogatori. Il primo ad essere sentito è un colono di Dazi, che confessa subito e conduce Maioletti in un tunnel sotterraneo, tra il casale e la casa colonica.

Viene interrogato Cesare Gioacchini, il signorotto della zona. Gioacchini è uno tosto, che sa come tenere testa a un interrogatorio di polizia. Gioacchini afferma risoluto che nella sua vigna nessuno ha mai fatto scavi clandestini. Maioletti gli chiede allora perché due anni prima, nel 1908, abbia venduto la casa colonica a Dazi, che non è mai stato ricco e anzi era il suo umile fattore. Gioacchini non sa che rispondere; dice di rivolgersi a lui, garantendo che finché ne era proprietario “nessuno mai fece ricerche”. Gioacchini mente, e Maioletti lo sa. Gli scavi sono avvenuti prima della vendita.

Maioletti ha modi che sanno essere convincenti. E alla fine anche Gioacchini confessa. Questa è la ricostruzione dei fatti. Nel 1908 il fattore Dazi, “piantando viti” nella vigna del padron Gioacchini, “tra le due costruzioni, rinviene alla profondità di metri 1,50 non solo il vuoto della galleria, ma avanzi di pavimento a mosaico”. Padrone e fattore, di comune accordo, aprono lo scavo clandestino, che frutta a entrambi una piccola fortuna. Dazi può così diventare proprietario della casa colonica, e Gioacchini trova la liquidità per ristrutturare il casale. Confessione ottenuta, l’indagine è chiusa. Maioletti va via.

Due settimane dopo, quando gli archeologi della Soprintendenza arrivano a Vigna Gioacchini, trovano la scena “ripulita” e soltanto tre reperti in bella vista: l’epigrafe di Fabia Helpis, il sarcofago e la testa del filosofo. L’ipotesi di studio è che Maioletti, una volta conclusi i compiti di polizia, abbia comunque voluto lasciare agli archeologi dei buoni indizi per comprendere l’importanza del sito e individuare l’identità del defunto ricordato dal cenotafio.

Proviamo a sciogliere questi indizi, ad un secolo di distanza. Con l’avvertenza necessaria che si tratta di un’ipotesi, non certo la soluzione di un cold case.

La banca dati del CIL, il Corpus Inscriptionum Latinarum, ci fa conoscere Fabia Helpis, grazie a un’altra epigrafe (XII, 3250, 3935) conservata al museo di Nîmes, in Francia. Fabia Helpis è una liberta, che termina la sua vita proprio a Nîmes (l’antica Nemausus, nella Gallia Narbonense), dove vive, probabilmente da esule, insieme con altri schiavi di alto rango, legati alla famiglia imperiale.

Uno di questi è il liberto Quinto Magio Zosimo, che si è rifatto una vita fino a diventare un magistrato, membro del Collegio dei IIIIII viri (i “sex viri”), il sodalizio che presiede ai Giochi Augustei. L’epigrafe ci tramanda infine il nome della sua defunta moglie: Acerronia.

È proprio il nome di Acerronia a evocare in suggestioni profonde. La biografia di Acerronia, morta in mare e insepolta, ci è trasmessa dallo storiografo Tacito, nel XIV libro degli Annales.

Acerronia è l’ancella prediletta della matrona Agrippina, l’unica ammessa a condividerne il letto. Agrippina infatti non si fida di nessuno: è una donna potentissima, avida e spietata, piena di nemici. Le sue ambizioni sono smisurate: è sorella di Caligola, ha sposato l’imperatore Claudio ed è anche madre in primo letto del futuro imperatore Nerone. Proprio alla morte di Claudio, forse avvelenato dalla stessa Agrippina, Nerone sale al trono ad appena 16 anni.

I primi anni di governo di Nerone sono anni illuminati, sotto la guida del suo precettore, il filosofo Seneca. Con distrubuzioni di grano e spettacoli gratuiti Nerone conquista il popolo, e nel frattempo conclude i cantieri iniziati da Claudio. È Nerone a terminarne i due lunghi moli del Porto imperiale; ed è ancora Nerone, affondando una nave in mare aperto, a realizzare l’isola artificiale su cui erige un faro.

Nel 59 d.C. Nerone viene informato di una congiura: Agrippina vuole detronizzarlo, per incoronare imperatore il suo amante, Rubelio Plauto. In risposta, Nerone comincia a pianificare il più atroce dei delitti: il matricidio. Due donne ­– l’avvenente Poppea e la schiava Atte –, lo fomentano in questo proposito. Ma è Seneca a impartire gli ordini esecutivi.

L’occasione sono le Quinquatries, la festa del 19 marzo in onore di Minerva, che si tiene nella Baia Domizia, in Campania. Al termine di un banchetto, Agrippina si imbarca su una nave per tornare nel Lazio. Agrippina non sa che quella nave è una trappola mortale. Sopra la cabina dell’augusta madre di Nerone è infatti posizionato un pesantissimo carico di piombo, pronto a schiacciarla e spezzare in due la nave, facendo sembrare l’imboscata un naufragio.

A notte fonda viene liberato il piombo, sopra il letto di Agrippina. Agrippina tuttavia rimane miracolosamente illesa, protetta dalle robuste spalliere del letto, e si ritrova così in mare, con accanto la devota Acerronia.

Alle due donne basta uno sguardo per capire cosa è successo. E lo stesso sguardo basta anche per escogitare il piano che salverà la vita alla matrona, al prezzo di quella della sua ancella prediletta.

Acerronia si mette così a gridare chiedendo aiuto, dicendo di essere lei Agrippina e di dover essere salvata per prima in ragione del suo rango. Nel frattempo Agrippina, che è una provetta nuotatrice, si dilegua indisturbata verso la costa. I sicari di Nerone arrivano poco dopo da Acerronia, a bordo di una scialuppa, e la finiscono a colpi di remi.

Le cronache di Tacito riportano che Nerone, saputo che Agrippina è scampata all’attentato, è colto da una crisi di pianto. Il consigliere Seneca gli dice con freddezza di portare a termine ciò che ha iniziato, inviando altri sicari.

Agrippina li affronta. Dice anzi loro parole famose: “Ventrem feri!”, “Colpitemi al ventre!”, alludendo al ventre che ha generato quel figlio maledetto.

Il figlio degenere adesso gongola. Fa sparire il corpo della made e diffonde una versione di comodo: Agrippina si sarebbe tolta la vita, da sola, dopo aver attentato senza successo alla vita del figlio.

I giorni che seguono, però, sono giorni terribili. Nerone è dilaniato dal rimorso; ha terribili incubi notturni. Nerone da allora perderà il senno, trasformandosi in un tiranno sanguinario.

Le azioni scellerate si susseguono. Uccide Poppea, prendendola a calci sul ventre. Incarica il capo del Pretorio, Tigellino, di eseguire stragi preventive di oppositori. Quando scoppia il grande incendio di Roma, Nerone ne accusa i cristiani. Si compiono 200 esecuzioni capitali, tra cui gli apostoli Paolo e Pietro.

Seneca abbandona Nerone, ritirandosi dalla vita politica. Forse prova rimorso, per aver avallato il matricidio di Agrippina e gli efferati deliri del Princeps.

È forse lo stesso Seneca – questo almeno ci lascia supporre il ritrovamento del busto di filosofo sulla via Portuense – a commissionare la costruzione del cenotafio di Acerronia, come atto di espiazione per quella morte senza tomba, e per il peso più grande di non essere riuscito a plasmare il giovane Nerone in un saggio imperatore. Seneca, di lì a breve, si toglierà la vita.

Le suggestioni ci stanno portando forse troppo in là. Il rapporto della Soprintendenza, assai scarno, non avrà mai un seguito. Tanto che mezzo secolo dopo, nel 1962, Casal Gioacchini e Casa Dazi saranno demoliti senza grossi problemi, per far posto al Piano di zona Colli Portuensi Sud. Abbiamo girato tra le palazzine di via Santorre di Santarosa. Ma nulla del Kenotaphion di Acerronia è oggi visibile.

Rimane infine un ultimo enigma da risolvere: chi sia realmente Benedetto Maioletti, poliziotto sotto copertura. L’immaginazione corre al commissario Beppe Dosi. Le sue caratteristiche di erudito conoscitore di antichità, provetto disegnatore e mago dei travestimenti, sono indizi non trascurabili. Ma Dosi all’epoca ha appena 19 anni; è ancora un allievo del criminologo Ottolenghi, della Scuola di Polizia scientifica. Entrerà in Polizia due anni dopo.


(articolo aggiornato il 22 Febbraio 2023)