Segue un tempo tranquillo e senza guerre, di cui Roma approfitta per darsi le prime regole. Le azioni umane sono ora scandite da un nuovo calendario, suddiviso in giorni fasti, buoni per lavorare, e nefasti, in cui è meglio riposare.

Gli Arvali governano il tempo e l’agricoltura, battono il ritmo del lavoro dei campi. Si riuniscono ogni anno a gennaio sul Palatino e fissano le date annuali di semina e raccolto; regolano con puntiglio gli aspetti più minuti della vita rurale. Una volta l’anno eleggono il proprio magister, perpetuando il ruolo di Romolo. E se un confratello arvale muore, gli altri undici ne adottano uno nuovo, per cooptazione, rimanendo sempre in dodici.

Gli Arvali presiedono a uno speciale pantheon di divinità agresti, incentrato sulla Grande Madre Terra, dea della fertilità, della luce solare e delle messi mature. Ai sacerdoti dei campi non è concesso di pronunciare il nome della dea-madre: nelle epigrafi si trova menzionata con un rispettoso “Dia” – la Dea –, che il latino arcaico non è nient’altro che il femminile di “Deus”, la divinità.

Alla dea senza nome gli Arvali dedicano ogni anno alla Magliana tre giorni di processioni: gli Ambarvalia (17, 19 e 20 maggio). Girano di campo in campo benedicendo la terra, avvolti in candide vesti di lino. Hanno il capo ornato con la spicea corona – la ghirlanda di spighe – e un utile velo per ripararsi il capo dal sole estivo, la vitta. Nel percorso gli Arvali portano con loro un bue, un agnello e una scrofa, che alla fine vengono immolati con il sacrificio del suovetaurilia. E tutto finisce in braciole, con una festa popolare di collettiva e conviviale fiducia nel futuro.

Di braciola in braciola, le processioni si spostano nel circondario romano e vanno avanti per tutta l’estate e l’autunno. Il passaggio degli Arvali è sempre scandito da epiche scorpacciate e feste danzanti. E in ogni tappa è recitata una preghiera, il Carmen arvale.

Il canto degli Arvali è una melodia mistica, di struggente e selvaggia bellezza. È una chiamata a raccolta degli spiriti, suddivisi in due classi: i Lares, gli spiriti della terra, e i Semunes, gli spiriti del vento, che danzano insieme con il sanguinario dio Marmar. Marmar, il dio guerriero, è pronto a punire con la morte chi varcherà il limen (il confine) e minaccerà l’integrità del campo coltivato: “Spiriti della terra, dateci forza! Marmar il sanguinario, castiga i devastatori, ferma le calamità! E dopo sàziati. Siedi sereno sul confine: veglialo. Marmar, invita a danzare gli Spiriti del vento. Marmar, dacci forza! Sia gloria a Marmar!”.

Nel pantheon arvalico c’è anche un vecchio burbero di nome Selvans, che presiede a boschi, orti e bestiame. Marco Porcio Catone nel De Agri cultura in torno al 160 a.C. ci tramanda la ricetta del Votum pro bubus, un’offerta a Selvans per la salute del bestiame: farro, pancetta e carne magra, il tutto rosolato nel vino.

Ci sono poi quattro divinità stagionali: il temibile dio dei fulmini notturni Summanus, celebrato in estate col sacrificio di un montone nero (20 giugno, Summanalia); la capricciosa dea Fons, sempre accompagnata dal suo stuolo delle nymphæ delle sorgenti, festeggiata in autunno (13 ottobre, Fontinalia); in inverno c’è il lupo-capra Lupercus, dio degli opposti inconciliabili che si scontrano portando novità (15 febbraio, Lupercalia); e infine Flora, dea del risveglio primaverile (28 aprile, Floralia).


(articolo aggiornato il 2 Novembre 2022)