Il primo ottobre 2013 è il giorno della chiusura della discarica di Malagrotta. Chiude i battenti, dopo trenta anni di attività. Per sempre.

Raccontare come si è arrivati a quel giorno non è semplice. Già dall’ottobre 2009, quattro anni prima, pare ormi evidente che il ciclo romano dei rifiuti, così come è organizzato allora, non è sostenibile su lungo periodo e va ripensato da capo. Le volumetrie disponibili nell’invaso di Malagrotta sono infatti in esaurimento; e per giunta i tre impianti romani che trattano i rifiuti (quello della Colari a Malagrotta, quello dell’Ama a Rocca cencia e un terzo impianto più piccolo nel quartiere Salario) affannano a tenere il passo con carichi sempre crescenti.

La soluzione più semplice e immediata – creare nuove discariche, chiamate “discariche di servizio” –, non pare però più percorribile. Uno dopo l’altro vengono proposti dei siti, ritenuti idonei:  due nel comune di Riano (Quadro alto e Pian dell’olmo) e un terzo a Roma, in Valle Galeria, a Monti dell’Ortaccio. Vi sono ovunque delle proteste popolari, e il 2010 trascorre con un nulla di fatto.

Nel giugno 2011 l’Unione Europea apre una procedura d’infrazione contro l’Italia, contestando che i rifiuti stoccati a Malagrotta non vengono pre-trattati, vengono cioè conferiti in discarica “tali e quali”: una bomba ambientale.

Nel settembre 2011 l’invaso di Malagrotta è colmo. Si riesce tuttavia, con l’intervento delle ruspe, a creare nuove volumetrie, che sembrano scongiurare l’emergenza.

La ricerca di una discarica di servizio intanto va avanti. Nel dicembre 2011 si individuano nuovi siti, e in particolare si punta su Corcolle, nel comune di Roma. Anche qui la proposta si risolverà in un nulla di fatto.

Incomincia intanto la corsa contro il tempo per evitare la procedura di infrazione europea, il cui ammontare è stimato in multe da un milione di euro al giorno. A Roma all’epoca ci sono quattro impianti industriali di supporto, chiamati TMB (acronimo di “trattamento meccanico e biologico”), in grado di togliere umidità e gli elementi di maggior tossicità dal rifiuto grezzo, permettendo lo stoccaggio in discarica a Malagrotta in condizioni di relativa sicurezza.

Facendo funzionare i TMB a pieno ritmo e attivando la linea di emergenza di Malagrotta 2, si riesce così a trattare 3000 tonnellate di rifiuti al giorno. Mancano ancora all’appello 1000 tonnellate al giorno, per essere in linea con le prescrizioni europee.

Questo deficit viene colmato nell’aprile 2013, quando a Rocca cencia entra in funzione il nuovo impianto Trito-vagliatore e una nuova stazione di trasferimento. Tutti tirano un respiro di sollievo, perché le sanzioni europee sono scongiurate.

Le cronache riportano una data: è il 10 aprile 2013. È il giorno in cui a Malagrotta viene scaricato l’ultimo carico di rifiuti urbani indifferenziati. La chiusura definitiva della discarica arriverà nei successivi cinque mesi.

In quei cinque mesi viene portato a Malagrotta solamente l’umido pretrattato, chiamato FOS (acronimo di “frazione organica stabilizzata”). Il conferimento del FOS termina il 30 settembre.

L’indomani, 1° ottobre 2013, è il primo giorno effettivo senza conferimenti in discarica.

Da allora (ed è così ancora oggi) a Malagrotta rimane in funzione la sola impiantistica di supporto, cioè i TMB, gli impianti industriali che trattano il rifiuto grezzo, rendendolo idoneo al trasporto in altre località.

In pratica, a Malagrotta, i camion colmi di rifiuti continuano ad arrivare, pieni. Ma dopo il passaggio in TMB i camion ripartono, portandosi via i rifiuti trattati e assemblati in “balle”. Malagrotta diventa da allora un “hub dei rifiuti”, in cui i rifiuti arrivano, ripartono, e non si fermano più.

Le balle di rifiuti trattati sono tendenzialmente idonee per utilizzi virtuosi: ad esempio se ne può produrre concime, oppure uno speciale carburante chiamato CDR, “combustibile da rifiuti”. Per nessuno dei questi due prodotti, tuttavia, è presente in Italia un mercato significativo; e i termovalorizzatori presenti in Italia non sembrano disposti a smaltirne il quantitativo in eccesso.

Alla fine gli impianti industriali interessati ad accaparrarsi le balle di rifiuti romani si trovano, ma sono in paesi lontani, come il Marocco, il Portogallo o la Grecia.

Si comincia così a sperimentare una soluzione temporanea, e cioè la spedizione via treno e su grandi navi cargo delle balle trattate all’estero. E i costi, come è facile immaginare, non sono da poco. La chiusura del ciclo dei rifiuti romani, insomma, è ancora lontana.

Il 2014 è l’anno delle Linee guida Ama, che affiancano il nuovo Contratto di servizio tra la città di Roma e la sua azienda municipalizzata dei rifiuti. Per la prima volta si dichiara la necessità di chiudere il ciclo, e di farlo in fretta. Una sfida ancora aperta.

Malagrotta nel 2014 si presenta quindi come una grande industria speciale, quella dei TMB, con intorno un grande invaso colmo di trent’anni di immondizie dei romani.

La fase successiva è la bonifica dell’invaso.

Per la bonifica esiste una progettualità, che, va detto subito, è ancora oggi nelle idee ma non nei fatti. Si prevede la perforazione del suolo di Malagrotta attraverso dei pozzi, simili a dei pozzi petroliferi, la cui funzione è estrarre dalle profondità il percolato, il liquido inquinante originato dalle infiltrazioni idriche nella massa dei rifiuti solidi urbani.

Una rete di raccolta dovrà poi estrarre e convogliare il percolato verso delle vasche di stoccaggio temporaneo, e quindi speciali impianti dovranno trattare il percolato e renderlo innocuo.

La progettualità della bonifica prevede anche la possibilità di una cintura di contenimento intorno alla discarica, un enorme muro in cemento e bentonite, dal perimetro di 6 chilometri.

La fase successiva alla bonifica è il capping, cioè ricoprire l’intera discarica di Malagrotta con uno strato di terra.

Anche per il capping esiste una progettualità, che prevede la progressiva copertura, lotto dopo lotto, di tutti e dieci i lotti che compongono la discarica, con la creazione di un parco attrezzato e la messa a dimora di 340 mila piante, in grado di assorbire ogni anno circa 800 mila tonnellate di anidride carbonica. Una piccola porzione di capping, con funzione soltanto dimostrativa, è stata effettivamente realizzata, e si trova nel piccolo Lotto L.

Tra il dire il fare, però, ci sono di mezzo dei costi enormi. Chi se ne farà carico? Le risposte, all’epoca, non sono univoche. Esiste un principio generale, che dice “chi inquina paga”, secondo il quale i costi di recupero ambientale gravano sull’industria che ha inquinato. Nell’attesa di un intervento pubblico a fare da traino, tutto si ferma, per i successivi 8 anni. Con il rischio di procedure europee di infrazione sempre dietro l’angolo.

Questo racconto ci porta inevitabilmente ai giorni nostri. Nel gennaio 2022 la regione Lazio richiesto al Governo italiano un finanziamento enorme – ben 250 milioni di euro – per realizzare bonifica e capping.

I finanziamenti, resi disponibili dal Fondo sociale europeo del quinquennio 2020-24, sono arrivati. L’accesso ai fondi, tuttavia, è una strettoia con date di scadenza ravvicinate: l’iter amministrativo deve concludersi entro il 2022 e il collaudo delle opere deve arrivare entro il 31 gennaio 2025. Il percorso è complesso e tre anni sono un tempo davvero esiguo.

Nell’ottobre 2022 è attesa la presentazione del progetto definitivo.


(articolo aggiornato il 1 Novembre 2022)