La notte del 31 maggio 1944 i soldati tedeschi cominciano l’evacuazione del Genio militare della Magliana. La partenza avviene senza testimoni: gli abitanti delle case popolari sono rinchiusi tra le mura domestiche, per via del coprifuoco. Venditti racconta di un trasferimento non visto ma chiaramente percepito, “nell’oscurità totale, con il fiato sospeso”. Tutti “sentono il lento procedere delle autocolonne, formate da ogni genere di mezzi meccanici e carri trainati da quadrupedi, che risalgono via del Trullo. I tedeschi, per non essere scorti dagli aerei da ricognizione avversari, non tengono accesa neanche una sigaretta”.

Un testimone oculare si farà avanti molti anni dopo. Si chiama Riziero Aquilante, classe 1926. È un diciassettenne, sfollato di guerra in un casolare su via del Ponte Pisano, una stradina tra cave e doline a meno di un chilometro dal Genio. Vede passare l’autocolonna, nella quale distingue la sagoma di un camion pieno di casse. Gli aerei alleati, in volo a bassa quota, cominciano a sganciarle addosso una pioggia di tritolo e raffiche di mitra.

Al comandante germanico non resta che ripiegare dentro una cava, ritenendo così di portare i suoi al sicuro. Ma una bomba ne centra in pieno l’ingresso. I soldati tedeschi restano lì sotto, in trappola.

La loro agonia si protrae per giorni. Aquilante lo racconta con parole strazianti: “Per giorni dalle bocche di aereazione si sono sentiti i gemiti dei sepolti vivi. No, non li ho aiutati. E in tutti questi anni ho vissuto con il rimorso”.

Passano gli anni. Oltre mezzo secolo. Nel gennaio 2002 Riziero Aquilante, ormai 75enne, si presenta ai Carabinieri. Ha saputo che l’Acea, durante la posa di cavi su via Ponte Pisano, si è imbattuta in grotte, ordigni bellici, ossa. Aquilante chiede di essere ascoltato: dice di conoscere un segreto taciuto per anni.

Il maggiore lo ascolta, con prudenza e rispetto. Potrebbero essere le fantasticherie di un vecchio, ingannato dalla sua stessa memoria; oppure il maggiore sta ascoltando una pagina di Storia che attende ancora di essere scritta. Stende un verbale e avvisa il magistrato, che mette l’area sotto vigilanza armata.

I pionieri del Genio impiegano tre settimane per riaprire l’ingresso franato della cava. Arrivano anche gli investigatori del Ris e le autorità tedesche. C’è anche un container blindato, che richiama frotte di giornalisti: forse è lì per recuperare le casse di un camion, con dentro “il tesoro dei nazisti in fuga”. Forse ci sono lingotti d’oro e preziosi, di inestimabile valore.

Nelle indagini viene impiegato anche uno dei primi droni, il cingolato Mk8. Il robot invia all’esterno le prime immagini a infrarossi. Scopre qualcosa.

È a questo punto che il flusso di notizie si interrompe. L’indagine viene secretata. Circola la voce che l’autocolonna tedesca sia stata localizzata, dieci metri sotto terra. Ci sarebbero resti umani, divise, armi leggere. E forse anche il famigerato camion. Forse.

Il 28 febbraio 2002 il quotidiano la Repubblica dà la notizia. L’indomani però il giornale sfuma le certezze del giorno prima in una semplice ipotesi: le ossa ci sono per davvero ma potrebbero anche essere ossa archeologiche, i resti di un’antica necropoli, come tante in quel territorio di antiche cave. Non se ne saprà più nulla.

La necessità di raccontare il finale della vicenda porta sul posto lo scrittore Eraldo Affinati. Il suo romanzo Secoli di gioventù (2004) immagina liberamente un finale che non c’è.


(articolo aggiornato il 3 Novembre 2022)