Il Trecento è un secolo livido, segnato dall’epidemia di peste nera, la carestia permanente, il trasferimento della sede papale ad Avignone, il ritorno della caccia alle streghe. Si tratta degli ultimi incubi prima dell’alba: il risveglio quattrocentesco sta per arrivare.

In questo tempo di marginalità si sviluppa alla Magliana la leggenda di una santa immaginaria: Santa Passera. Santa Passera non è mai storicamente esistita, né è ricordata altrove o in altre chiese: non ha neppure un ritratto né una biografia. Eppure, il popolo della Magliana le è devotissimo. Tanto che nella chiesina a bordo Tevere la nuova santa soppianta in un baleno i precedenti culti di Prassede e Papaciro, portando però con sé qualcosa di entrambi: da Prassede prende la tenace resilienza di un’identità femminile, da Papaciro conserva la fama di compiere miracoli a profusione.

La sua ascesa è rapidissima. Santa Passera compare la prima volta in una pergamena dell’anno 1317, con la grafia “S. Pacera”, dove la doppia S è sostituita da una C. Appena quattro anni dopo, nel 1321, il popolino chiama col suo nome l’intera contrada intorno alla chiesina, “quid vulgariter dicitur S. Pacera”, volgarmente detta Santa Pacera. Un altro documento analogo risale al 1325.

Il primo studioso moderno a indagare le origini di Santa Passera è Mariano Armellini. A fine Ottocento lo studioso dispone di scarsissime informazioni: sa che Abbas Kyros, Appaciro e Papaciro sono lo stesso santo, ricordato nel tempo con nomi diversi; di Prassede invece si è persa ogni memoria. Questo porta l’Armellini a far derivare il nome Passera da una distorsione fonetica di Appaciro: “Quest’antica chiesuola, per corruttela, viene chiamata dal volgo prima Abbas Cyrus, poi Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera”, scrive Armellini.

L’ipotesi è suggestiva ma non spiega il cambio di sesso di Abbas Kyros.

E rimane un mistero perché Santa Passera si festeggi il 21 luglio, un giorno che sul calendario è già occupato da Santa Prassede. Armellini pensa a un errore: il volgo confonde Prassede con Passera, “nel qual nome si vuole trovare qualche simiglianza con il nome di S. Prassede”. E “allorquando il nome dei due Santi [Papaciro e Giovanni] si cambia nell’inaudito di Passera e si crede che sotto questo si nasconde quello di Prassede, si comincia a celebrare in questa chiesa che la festa di S. Prassede. E al 21 di luglio, giorno natalizio di detta santa, il popolo romano concorre in folla a questo luogo”.

La questione sembra complicarsi, ma in fondo l’enigma Armellini l’ha già risolto, quando individua che “sotto questo si nasconde quello di Prassede”. Santa Passera non è infatti soltanto il famoso Abbas Kyros sotto diverse spoglie, insieme con il suo discepolo Giovanni e non è neppure la memoria sopita delle due sorelle martiri Prassede e Pudenziana: è piuttosto un culto unitario, intitolato a una santa che non esiste, che al suo interno comprende però quattro santi veri. E tra i documenti ecclesiastici ricorre persino il nome intermedio di “S. Passère” ― forse maschile forse femminile, non è dato sapere ―, attestato nel 1376.

L’episodio che probabilmente provoca l’uscita di scena di Prassede dalla Magliana ― e segna il debutto della nuova santa immaginaria ― è il clima di rinnovata caccia alle streghe culminato con la bolla papale Super illius specula di Giovanni XXII.

Si tratta di un documento piuttosto singolare datato al 1326, che condanna come eretici i fabbricanti di specchi e altre “immagini, anelli o ampolle e qualsiasi altra cosa per legare magicamente a sé i diavoli”. Contro questi oggetti attira-diavoli il buon contadino può già proteggersi con la segnatura, marchiando cioè ogni cosa o capo di bestiame con il segno della croce. Ma la Chiesa decide anche di punire le fattucchiere, accusate di costruire e propagare questi oggetti. La pena è l’impiccagione e il rogo postumo, argomentato con il versetto “Chi non rimane in me viene gettato via, come il tralcio secco. E poi viene raccolto e bruciato” (Vangelo di Giovanni, 15, 6).

Più o meno nello stesso periodo anche il poeta Dante Alighieri si scaglia contro quelle donne che, tralasciando le faccende domestiche, intraprendono la carriera di fattucchiere: “Vedi le triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine; / fecer malìe, con erbe e con imago” (Inferno, 20, vv. 121-123).

È troppo. Alla Magliana la diaconessa Prassede si toglie di dosso l’ingombrante abito da fattucchiera, lo seppellisce per sempre e indossa al suo posto gli abiti nuovi di una santa mai esistita prima.

La festa annuale della chiesina di Santa Passera continuerà a celebrarsi il 21 luglio fino al 1435. In quell’anno la proprietà passa ai canonici di Santa Maria in Via Lata, che ripristinano il culto di Papaciro e spostano la festa annuale al 31 gennaio.

La cattiva fama di Santa Prassede ― un po’ santa e un po’ strega ― troverà un epilogo imprevisto cinque secoli dopo, nel 1969. In quell’anno Papa Paolo VI, in applicazione delle risoluzioni del Concilio Vaticano II (1962-65), cancella in un colpo solo dal calendario liturgico ben 159 “santi immaginari”, cioè quei santi di cui non si può dimostrare la reale esistenza storica. La black list è preparata da dotti gesuiti, il papa si limita a convalidarla con il motu proprio Mysterii Paschalis. Tra i santi depennati dal calendario finisce anche Prassede. La stessa sorte tocca anche alla sorella Pudenziana. E la Magliana rimane senza santi in paradiso.

Facciamo ora un passo indietro, torniamo agli inizi del Quattrocento. Inizia una stagione di prosperità. Si riscopre il valore del tempo, del passato e del futuro; ogni cosa diviene misurabile e quindi progettabile. Il metro con cui tutto ciò è possibile è l’uomo, posto al centro di tutto. Inizia il secolo d’oro dell’umanesimo.


(articolo aggiornato il 10 Ottobre 2022)