Il 1517 è anche l’anno della grande congiura. Il suo racconto ci perviene dallo storico Francesco Guicciardini. Nella primavera di quell’anno il decano del Sacro collegio Raffaele Riario e il cardinale Alfonso Petrucci da Siena ordiscono una perfida trama, per disfarsi del pontefice.

Alfonso Petrucci nutre un incolmabile rancore, fin da quando, alla morte di suo padre Pandolfo Petrucci signore di Siena (1516), Papa Leone si è impadronito della città. Petrucci, “ardendo di odio e quasi ridotto in disperazione, ha pensieri di offenderlo violentemente”. Se potesse, lo ucciderebbe anche a mani nude. Ma la vendetta prende invece la strada di un sofisticato intrigo.

Nel giugno 1517 arriva alla Magliana il nuovo medico di corte, Mastro Battista da Vercelli, per curare un imbarazzante disturbo fisico che affligge il Santo Padre: una fistola “in ima sede”, cioè una piaga al fondoschiena. Tramite Mastro Battista i congiurati intendono somministrargli una medicina avvelenata.

L’umanista Giovio descrive Mastro Battista come un abile ciarlatano: “impurus, crudelis, fallacissimus” (sporco, sanguinario, grand’imbroglione) eppure dotato di “ingenio expedito et singularis digitorum argutia” (vivacità d’intelletto e mani d’oro). Sa curare il “mal de la pietra” (i calcoli renali), il “mal francioso” (la sifilide), le cataratte e non è neppure male come “cavadenti” (dentista).

A Leone basta poco per fiutare l’inganno. E così, quando Mastro Battista gli chiede di mostrare la parte dolente, Leone si rifiuta con sdegno: a nessuno è consentito di guardare il sedere del papa, neppure al suo medico! Un provvidenziale pudore salva Papa Leone.

Da quel momento Leone capisce di essere in pericolo. Sguinzaglia il procuratore fiscale Mario da Perusco e fa arrestare i cospiratori, uno dopo l’altro. Il cardinal Petrucci finisce strangolato, dal celebre boia Rolando il Moro; Mastro Battista invece viene “squartato da vivo”. Per gli altri congiurati – buona parte del Sacro collegio – arriva invece il perdono. Si tratta di una “gratia sub condicione”, cioè un perdono a pagamento. Per Papa Leone la congiura si rivelerà un gigantesco affare.

Risolta la cospirazione e andati via anche i polverosi operai del Bramante, la Magliana è adesso un luogo sicuro e confortevole. Al castello accorrono nobili invitati. Si spalancano le porte del salone delle feste.

Nel salone delle feste il Bramante ha realizzato una piccola meraviglia. Ha tra sformato le rigide forme del Sangallo in una cassa armonica da teatro, dall’acustica perfetta, avvolta in un soffitto ligneo a cassettoni. Sulle quattro pareti i pittori del Perugino hanno realizzato a fresco una decorazione continua, ambientata a trompe l’œil in un paesaggio agreste, ispirata al tema mitologico di Apollo e le nove Muse.

Il dio della bellezza suona il violino, mentre sullo sfondo il cavallo alato Pegaso invita lo spirito a librarsi in volo. Dalle pareti le nove dee delle arti guardano ammiccanti lo spettatore invitandolo a sceglierne una, e lanciarsi con lei nell’estasi delle arti. Melpomene e Thalia mostrano un malizioso seno nudo.

Nel salone si fanno le ore piccole, in compagnia di musici, pittori, letterati e politici, che Papa Leone riunisce intorno a sé in un cenacolo. Vi prendono parte Michelangelo, il giovane Raffaello e il filosofo Niccolò Machiavelli, insieme con lo storico Guicciardini e l’architetto Bramante. Le più grandi menti del pianeta sono concentrate in appena 200 metri quadri. Discutono di scienza, miti e guerra; quasi mai di religione.

Con un battito di mani Leone interrompe il vociare. Fa imbandire la tavola. Leone è uno che mangia forte: i suoi banchetti raggiungono le 65 portate. E il pontefice, riferiscono i cronisti, pare che le mangi tutte e 65, con metodica applicazione. Le cucine al piano di sotto sono enormi: dieci volte la superficie della cappellina, tanto per fare un raffronto. La vita del resto è questione di priorità.

Un grande cruccio però rattrista Papa Medici: la sua tavola è accompagnata dalla romanella, il vino locale a bassa gradazione, dal gusto amabile ma fatalmente inadeguato alla mensa di un sovrano. Leone X risolve l’inconveniente, facendo piantare intorno al castello il pregiato vitigno aleatico, un moscato toscano dal gusto aromatico e intenso, a elevata gradazione. L’aleatico si coltiverà in zona fino a metà Ottocento.


(articolo aggiornato il 11 Giugno 2022)