Il racconto del X secolo, il sæculum obscurum (il “secolo oscuro”), ci perviene per frammenti, dai contratti rogitati dai notai e da qualche rara cronaca ecclesiastica.

Uno di questi contratti – che conosciamo grazie agli studi di Andrea Di Mario – è datato 1° febbraio 968 e ci informa della nascita di una proprietà fondiaria unitaria, nei terreni su cui insiste oggi il quartiere Marconi.

Anzi, è proprio con questo documento che per la prima volta la zona comincia ad avere un suo nome: Prata Papi. La parola Prata (“prati”) indica che si tratta di spazi aperti e privi di boscaglie; Papi ci riporta invece al nome dei primi proprietari, la famiglia trasteverina dei Papareschi.

La proprietaria del tempo, la nobildonna romana Teodora, dona questi terreni al monastero dei Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea (oggi San Cosimato in Trastevere), non sappiamo bene per quali ragioni. Si tratta di un dono particolarmente appetibile: “pratum unum, in integro cultum et absolatum, cum terminis et fossatis suis et cum omnibus ad eum pertinentibus”. Il fondo è produttivo (absolatum), solcato da canali di irrigazione (cum fossatis) e già interamente messo a reddito (in integro cultum). Gli estranei sono tenuti a debita distanza con opportuni massi segnaconfine (cum terminis) e la proprietà è ben attrezzata (cum omnibus ad eum pertinentibus) perché si mantenga in perfetta efficienza agraria.

Il nome di Teodora ci permette anche di contestualizzare il documento in un momento storico delicato: la fine del “governo delle prostitute” o pornocrazia romana. La nobildonna citata è infatti con buona probabilità Teodora seconda, figlia della celebre Teodora (870-916), considerata la donna più potente e controversa del secolo.

Raccontare la storia di Teodora ci porta indietro in un flashback all’inizio del secolo X.

Moglie del senatore Teofilatto e soprannominata a sua volta Senatrix (la “senatrice”), Teodora è descritta del vescovo Liutprando da Cremona in una celebre cronaca, priva di peli sulla lingua: “È una sfacciata meretrice che esercita il suo governo su Roma peggio di un uomo e giace con cardinali e alti prelati pur di ottenerne favori in cambio”.

Liutprando ha rivolto invettive anche contro sua figlia, Maria de’ Teofilatti (890-955) detta popolarmente Marozia, mentre non sembra che a sua sorella Teodora seconda, quella dei Prata Papi, siano imputabili particolari misfatti. Marozia, dice Liutprando, è “bella come una dea, ma focosa come una cagna”. Sarebbe diventata appena quindicenne la concubina del papa Sergio III, riuscendo persino a coprire con la sua arguzia lo scandalo di una gravidanza con il Santo Padre: poco dopo infatti convola a nozze con un nobile amico del papa, l’anziano Alberico duca di Spoleto.

Rimasta vedova, Marozia si risposa con tale Guido marchese di Toscana, e di lì incomincia la sua personale scalata verso la signoria di Roma.

Marozia convince infatti Guido ad armare un esercito, ed è Marozia in persona che guida l’assalto, nel maggio 928, ai sacri alloggi del Laterano. Deposto senza problemi il pontefice regnante Giovanni X, Marozia lo sostituisce con l’accondiscendente Leone VI, e da quel momento Marozia è de factu signora di Roma.

Peraltro, insoddisfatta anche di Leone VI, l’anno seguente lo fa assassinare sostituendolo con Stefano VII. E, insoddisfatta anche di quest’ultimo, lo depone nominando direttamente papa il suo primogenito Giovanni, pontefice come Giovanni XI nell’anno 931.

È a quel punto però che per Marozia incominciano i guai familiari.

Il favore di Marozia verso Giovanni ha infatti scontentato il secondogenito, di nome Alberico, che nel 932 mette in piedi un suo esercito ed emula le gesta della madre, assaltando per una seconda volta il Laterano. Messo agli arresti il fratello Giovanni XI, da quel momento Alberico è il nuovo signore di Roma.

Pare che Giovanni XI sia morto poco dopo, mentre la memoria popolare riferisce che Alberico, figlio degenere, non avrà alcun rimorso nel tenere rinchiusa la madre Marozia per 23 anni, nelle segrete di Castel Sant’Angelo.

La vicenda di questa dinasty tutta romana si conclude con ulteriori colpi di scena. Morto anche Alberico, nel 964 viene deposto da pontefice anche suo figlio, che nel frattempo si era nominato papa con il nome di Giovanni XII. E nel 972 muore infine papa Giovanni XIII, figlio di Teodora seconda e ultimo discendente della turbolenta casata.

Negli anni che portano al fine secolo, a Roma tutto si ferma.

Inizia invece un periodo di inerte attesa, per l’imminente Anno Mille, in cui si mormora che il mondo finirà, e ciò non prima che sopra i cieli di Roma si sia verificato un evento dai caratteri apocalittici: l’Armageddon, la furibonda resa dei conti finale tra il Bene e il Male.

Infatti, secondo le profezie millenaristiche desunte dal Libro dell’Apocalisse, “il Serpente antico” – cioè l’angelo caduto Lucifero – è destinato a rimanere incatenato nelle profondità infernali “per mille anni, e non più di mille”; “compiuti i quali” l’Avversario tornerà a farsi vivo. In molti insomma sono convinti che, un istante dopo l’Anno Mille, Lucifero in persona si presenterà a Roma, mal accompagnato da un esercito di creature mostruose, per dare il via all’Armageddon.

I campagnoli della Magliana scrutano atterrititi il cielo, nell’attesa di veder sciamare frotte di diavoli volanti.

E nessuno nel frattempo si prende più la briga di coltivare i campi, attendere ai commerci, aggiustare le strade. Un’indagine al radiocarbonio, condotta nel 2007 su un deposito di fango della Via Portuense-Campana presso la nuova Fiera di Roma, sembrerebbe confermare questo scenario.

Intorno all’anno 982 infatti dev’esserci stata una grande esondazione del Tevere. Forse per i caratteri eccezionali della piena, forse perché con il Mille alle porte non vale la pena di darsi grandi affanni, dall’indagine al radiocarbonio emerge che nessuno dopo quel momento critico si dà cura di spalare via il fango per ripristinare la strada.

Questa crisi di viabilità deve aver investito un tratto esteso della via Portuense-Campana, per una ventina di chilometri, dal Trullo al mare.

Disponiamo infatti di altri documenti, che si incrociano con questa informazione. Un contratto dell’anno 1009 ci dice che la strada che costeggia il Tevere è pienamente percorribile, almeno nel tratto iniziale dall’Urbe fino ai prati dei Papareschi. Nel contratto si legge che un tale di nome Giovanni di Azzo prende ottimisticamente in affitto la tenuta di Prata Papi “per tre generazioni”: cioè per sé, suo figlio e anche suo nipote. Evidentemente l’uomo, nella storiella della fine del mondo, non ripone alcun credito.

Un documento del 1011 ci lascia intendere che dai Prata Papi si arriva in qualche modo fino al Trullo, dove si dice messa in una nuova chiesina campestre – chiamata Trullus de Maximis – edificata riadattando il vecchio sepolcro dei Massimi in riva del Tevere.

Oltre il Trullo però, tutto precipita nel totale abbandono.

Un diploma del 1019 ha per oggetto la cessione della tenuta di Campo Merlo al vescovo di Porto. Vi si parla di prati incolti e desolati, e non si fa menzione dell’antica chiesina di San Pietro in Campo Merlo, rimasta ormai senza fedeli in grado di raggiungerla. Quando quattro secoli e mezzo dopo l’umanista Flabio Biondo si metterà in cerca della chiesina, ritrovandola, scriverà sconsolato: “Ecclesia Sancti Petri, quæ Via Portuense ad Pontem Meruli dirupta cernitur”. Dirupta: ovvero giace in rovina.

Oltre Campo Merlo, da Ponte Galeria al mare, regna la desolazione. Una bolla papale del 1018 ci dice che la zona è stata riconquistata da “sylvis atque pantanis”: boscaglie e paludi sbarrano il passo. E portare approvvigionamenti a Roma via mare è diventato un’impresa.

Sebbene questi documenti riferiscano scene di terrificante desolazione, va detto che gli studiosi moderni tendono in buona parte a ridimensionare, se non a confutare, il fenomeno sociologico della paura collettiva per l’Anno Mille.

Pare che tutto sia nato da un falso storico, cioè una voce anti-cattolica messa in giro ad arte nel 1789 dall’inglese William Robertson, poi ripresa nel 1833 dal francese Jules Michelet. L’argomentazione più forte è che nel X secolo, a parte ecclesiastici e notai, sono in pochi a conoscere esattamente in quale anno ci si trovi.

La verità sta probabilmente nel mezzo: se è vero che all’epoca nessuno è in grado di prevedere esattamente l’ora esatta in cui i diavoli sciameranno a frotte, è anche vero che il clima da finimondo era comunque nell’aria.

L’appuntamento con l’Anno Mille, comunque, in qualche modo arriva e con grande sorpresa di tutti il mondo non finisce. E la vita, alla Magliana come altrove, riprende. L’Armageddon per ora può attendere.


(articolo aggiornato il 25 Marzo 2023)