Una breve rassegna di quattro tombe, tutte databili tra il declinare del II secolo e l’inizio del III, ci testimonia ora di un clima culturare diverso, mutato.

La prima tomba – l’ipogeo di Dike – si trova sotto la chiesina di Santa Passera (di cui costituisce la cripta martiriale), nell’antica necropoli di Vicus Alexandri. Attraverso ripide scalette scendiamo nel sottosuolo e ci ritroviamo in una stanza funeraria del tempo di Settimio Severo (193-211). È piccolissima. L’aria è rarefatta e la visita è sconsigliata a chi soffre di claustrofobia. Ma la bellezza della decorazione pittorica ci ripaga della fatica, perché su sfondo di intonaco chiaro ci ritroviamo al cospetto di una dea greca: Dike.

La vergine Dike vive durante l’Età dell’oro, un’epoca prima del tempo in cui dèi e mortali vivono in familiarità. Con la rivolta di Zeus contro il padre Crono tutto cambia: il mondo conosce la fatica, la violenza, l’avidità; si tracciano confini, esplodono guerre, la stessa Dike finisce esiliata in cielo. Ovidio nelle Metamorfosi narra con versi struggenti la sua partenza dal nostro mondo: “Victa iacet pietas et Virgo cædet madentes terras”. La pietà giace sconfitta e la vergine Dike lascia la terra grondante di sangue (I, 49).

Pregare Dike è quasi uno schiaffo a Roma, perché Dike è l’avversaria di Giove, lo Zeus romano e nume tutelare dell’Impero. Eppure, alla Magliana c’è chi prega perché la dea perché faccia ritorno, scacci via Giove e porti con sé una nuova età dell’oro. Dike sintetizza perfettamente il malinconico spaesamento del suo tempo, contrapposto al rimpianto dei bei tempi andati. Il suo affresco a Vicus Alexandri la raffigura come una vergine guerriera: in una mano ha la bilancia, per soppesare le ingiustizie, e nell’altra ha una spada, per riparare i torti.

Un altro culto ci riporta al rimpianto dell’Età dell’oro: quello della dea Proserpina.

Ce ne parla un grande mosaico, ritrovato all’Istituto Vigna Pia, sulla scarpata che affaccia sulla piazza Meucci di oggi. Una cronaca del 1885 riferisce di un’intera necropoli rupestre: “Si veggono avanzi di sepolcri d’ogni maniera: ipogei ed arcosolii, cassettoni a capanna, sarcofagi fittili etc. Sono stati ritrovati pure alcuni selcioni della Via Campana […]. Si è rinvenuto e distrutto un colombario…”.

Il colombario, della metà del II secolo, è uno stanzone rettangolare, ipogeo, che allinea all’interno ordinate file di nicchiette e arcosoli, cioè nicchie più grandi, sormontate da un arco e con una soglia in marmo. Il pavimento ha un mosaico di pregiatissima fattura, che raffigura il rapimento della ninfa Proserpina.

Anche la sua vicenda è ambientata in uno scenario di eterna primavera e campi in fioritura perenne, e racconta per metafora la fine dell’Età dell’oro. Il mosaico raffigura il malaugurato incontro con il dio infernale Plutone, barbuto e dalla folta capigliatura. Plutone con un braccio tiene le briglie del suo cocchio e con l’altro afferra al volo e rapisce la ninfa Proserpina, per farne la sua sposa e regina dell’Ade. Quattro cavalli neri al galoppo lanciano il cocchio infernale, mentre il dio Mercurio con le ali ai piedi li precede e batte la via verso gli Inferi.

Quando la grande madre Cibele viene a sapere del rapimento, è furibonda. E in rappresaglia invia sulla Terra due flagelli: Phthinóporon (l’Autunno), che porta tre mesi di freddo e carestia; e Keimón (l’Inverno), con tre mesi di gelo mortale. Nel mosaico la carestia autunnale è un giovane dal capo cinto da pampini d’uva; il gelo invernale è un vecchio con una corona di canne.

Costretto ora a scendere a patti, Plutone restituisce Proserpina alla madre, ma solo per sei mesi l’anno. Negli altri sei invece Proserpina farà ritorno nelle profondità infernali, e così in un eterno alternarsi di cicli di luce e tenebre.

Cibele reagisce con risoluta fermezza. Nel tempo in cui le sarà concesso di rivedere la figlia, farà risvegliare e fiorire la terra, attraverso altri due emissari: Eiar (la Primavera) e Theros (l’Estate); e continuerà a flagellare la Terra per gli altri mesi. Di questa parte del racconto rimane la raffigurazione del risveglio primaverile: una ragazza con una coroncina di germogli campestri; manca purtroppo la raffigurazione della maturazione estiva, che per simmetria possiamo immaginare come una donna matura dal capo cinto di grano.

Infatti, durante le rischiose operazioni di asporto, il lato destro del mosaico è andato distrutto. E oltre all’Estate, manca oggi proprio la parte più preziosa: la raffigurazione di Proserpina, con le braccia tese in cerca di aiuto; e manca anche la raffigurazione di un’altra ninfa, la coraggiosa Ciane, che prova senza successo a soccorrerla. Ciò che resta del mosaico si può oggi vedere nella Sala delle caldaie del Museo Centrale Montemartini.

Il terzo sepolcro, la tomba dei Geni danzanti, affiora nel 1951, su via della Magliana Antica, accanto alla più celebre tomba dei Campi elisi. La sua particolarità è che non ci sono decorazioni a fresco, ma bassorilievi in stucco.

Si tratta di un sepolcro scavato nel tufo, con nicchie per le urne cinerarie e fosse per l’inumazione, databile tra la metà del II secolo d.C. e gli inizi del III.

La volta presenta un originale impianto geometrico, basato sull’intersezione di cerchi e quadrati, che permette l’inserimento alternato, come in una scacchiera, di una trentina di medaglioni in stucco, che raffigurano complessivamente una trentina di geni e altre figure mitologiche, tutte raffigurate nell’atto di correre o danzare: il genio alato, il satiro, la ninfa in nudità, la ninfa con le vesti mosse dal vento, i putti alati alla guida di una biga, i dioscuri al galoppo dei loro destrieri, i genii a cavallo di un ariete, e infine la tigre, il caprone, il grifone.

I motivi figurativi dei medaglioni sono tutti accomunati dal tema della “danza della vita”, con il messaggio consolatorio del perpetuo rinnovarsi delle forme e delle energie vitali.

Il più noto e accurato tra i medaglioni è un genio alato danzante, con lunghi capelli e un morbido panneggio in movimento.

Il sepolcro non ci trasmette informazioni dirette sugli occupanti. L’osservazione delle dimensioni contenute (appena 5 metri quadri) ci permette tuttavia di immaginare un piccolo nucleo familiare di condizioni economiche agiate, colpito da un lutto in qualche misura previsto e facilmente elaborato. Quest’ultimo elemento si desume dalla modalità di svolgimento delle opere funerarie. Esse sono state probabilmente curate da almeno un paio di prossimi congiunti, forse due fratelli, con una certa organizzazione e suddivisione dei compiti. Uno dei due deve essersi occupato della volta in stucco, adedmpiendovi con grande solerzia. Le pareti, affidate probabilmente all’altro congiunto, sono state preparate per la decorazione a fresco, ma poi sono rimaste spoglie. Possiamo immaginare che l’erede incaricato di abbellire le pareti – e questo può accadere in ogni buona famiglia –, abbia avuto altri impegni o incontrato qualche difficoltà economica, rimandando le finiture a tempi migliori. La tomba dei Geni danzanti è stata intagliata e trasportata al Museo Nazionale Romano.

Una quarta tomba si trova anch’essa oggi al Museo Nazionale Romano. Si tratta più propriamente di una coppia di sarcofagi in marmo, rinvenuti nel colombario del Drugstore Museum. Entrambi sono in marmo strigilato, decorato cioè con scanalature ondulate (lenos) di finissima fattura, secondo la moda dei primi decenni del II secolo.

Il primo sarcofago presenta un disco (clipeo), con una dedica ad una donna che ha superato i 40 anni ma non ha ancora raggiunto i 50. Il secondo sarcofago presenta due clipei, con all’interno le sculture in bassorilievo dei due busti della divinità esotica Selene e del suo fratello-amante Helios, simboli del perpetuo alternarsi del giorno e della notte.

Questi clipeo di Selene merita una digressione. La dea è rappresentata in bassorilievo, a mezzo busto, con gli attributi della torcia accesa e del crescente lunare.

Selene è una divinità importata dalla Grecia a Roma nel II secolo d.C., non assimilabile a Diana (la divinità lunare romana del pantheon classico), con tratti propri narrati nella Teogonia di Esiodo. Dea della fecondità, della morte e della rinascista, Selene è la dea del perpetuo rigenerarsi delle cose.

Selene è la dea delle fasi e dei cicli ma è anche la dea indulgente delle eccezioni a quanto la natura ha prestabilito. Quando un pagano di epoca imperiale deve chiedere una cosa impossibile non rimane altro che dirlo alla Luna. Fra tutte le cose impossibili vi sono soprattutto gli amori proibiti. Selene ne ha avuti ben quattro!

Selene è una donna matura, ancora bellissima, dal viso incredibilmente pallido, tanto da far impallidire al suo passaggio anche le stelle. Il suo attributo, una torcia dalla fiamma d’argento, le riflette sul viso, mentre un secondo attributo, un fermaglio a forma di luna crescente, le raccoglie ordinatamente i capelli. È raffigurata con lunghe vesti ariose.

A Selene si attribuiscono quattro amori proibiti, corrispondenti ognuno ad una fase della vita, crescente o calante che sia: quello giovanile e incestuoso con il fratello Helios; quello rubato da Pan con la violenza che, trasformatosi in passione, lascia il posto al rimpianto; quello effimero con il maturo Zeus che si dimenticherà presto di lei; e infine quello non corrisposto con Endimione, giovanissimo figlio di Zeus.

Selene dunque, oltre al suo simile (Helios, la luce solare) ama anche il suo contrario (Pan, l’oscurità e le tenebre). Si dice che Selene abbia perdonato la brutalità di Pan, e che questi le abbia fatto il dono riparatorio della pariglia di candidi buoi che trainano il suo carro nella notte.

E se Zeus si dimentica presto di lei, Selene non può dimenticare il suo giovanissimo figlio Endimione. Il mito riferisce che Selene, folle di bramosia e crudeltà, perché respinta e giudicata troppo matura, ottiene che Endimione cada in un sonno eterno. Solo così Selene può avvicinarsi a lui.

Nel sarcofago gli archeologi hanno rinvenuto un braccialetto e due orecchini in oro.


(articolo aggiornato il 4 Febbraio 2023)